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Messaggero: Il merito in cattedra per salvare la scuola

Giorgio Israel. Rilanciare l'istruzione

27/05/2009
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Il Messaggero

di GIORGIO ISRAEL
IL SERVIZIO de Il Messaggero sul “merito negato” nella scuola («Vietato premiare, vietato punire: noi presidi frustrati») ha offerto un’altra vivida pennellata di una realtà che ci perseguita quotidianamente e che si riassume in una frase inquietante: «Chi tocca i fili del merito nella scuola muore». È una situazione tanto grave che i principali attori insegnanti, presidi, famiglie, sindacati, associazioni professionali dovrebbero sentirsi chiamati a rispettare il precetto più violato: badare in modo primario all’interesse generale mettendo in secondo piano quello personale o del gruppo che si vuol rappresentare.
Delineare come possa essere riportato al centro della scuola il principio del merito richiederebbe di entrare in questioni anche normative delicate e complesse. Tuttavia, ci si può limitare a enunciare alcuni punti generali che gravitano attorno a due questioni: autonomia e valutazione.
Nessuno può mettere in discussione il valore del principio dell’autonomia e sognare assurdi ritorni centralisti. Ma sarebbe poco responsabile non vedere certe direzioni sbagliate che ha preso l’applicazione dell’autonomia. Dei guasti prodotti in ambito universitario si è molto parlato. Nel caso della scuola il giusto principio che un istituto possieda libertà di organizzazione e di proposta didattica è deragliata nell’idea che l’istituto sia un’azienda in lotta con altre per affermarsi in una contesa commerciale. Ne è derivata una corsa al ribasso, ovvero a chi offre condizioni migliori all’“utenza” (la famiglia) accelerandone la propensione a farsi sindacato dei figli. È vano parlare di merito se si dimentica che l’istruzione è una funzione educativa sociale che ha parametri suoi propri. In parole povere, cosa significhi sapere la matematica non si definisce in funzione della “soddisfazione dell’utente” che, in tal caso, non potrebbe che essere la pretesa di ottenere il miglior voto col minimo sforzo possibile. Connesso a questo errore è quello di pensare al preside come a un “manager” che gestisce la scuola in base a meri criteri di efficienza e di successo nella concorrenza. Il preside deve essere e restare un insegnante partecipe fino in fondo della funzione educativa e deve valutare il successo dell’istituto rispetto a un unico obiettivo: far acquisire agli allievi una buona istruzione e un buon metodo di studio.
La preside Carla Sbrana, del liceo classico “Giulio Cesare” di Roma lamenta giustamente l’impossibilità di premiare il merito dei docenti e di dover subire «estenuanti trattative con la rappresentanza sindacale interna» per distribuire i soldi del fondo incentivante a chi, in fin dei conti, non ha tanto insegnato meglio, quanto ha fatto un “progetto” in più. L’emergenza dovrebbe suggerire di sospendere per un congruo periodo e di non riattivare se non dopo un accurato ripensamento il sistema perverso dei “progetti” speciali che non soltanto ostacolano il premio del merito effettivo, ma relegano sempre più ai margini i contenuti centrali dell’insegnamento riducendo la scuola a un caravanserraglio delle iniziative più disparate e spesso di dubbio valore culturale. Oltre a essere il carburante di un sistema clientelare, i “progetti” alimentano l’ideologia secondo cui occorre smantellare l’assetto disciplinare nella scuola. Pochi sanno che c’è chi predica un’ideologia “olistica” secondo cui non debbono esistere più né le discipline, tutte integrate in un polpettone di conoscenze-competenze, né ore dedicate a specifiche materie. Niente più campanella oraria. Ogni mattina, la “comunità educante” si dovrebbe aggregare attorno a tematiche liberamente scelte: in un angolo un gruppo studia la rivoluzione francese, in un altro si studia l’algebra, in un altro si fa musica. Fortunatamente questo paese dei balocchi non si è ancora imposto legislativamente ma i suoi fautori vedono nei “progetti” il cavallo di Troia della disgregazione della struttura scolastica per conoscenze e discipline. Le cattive interpretazioni del giusto concetto di autonomia si riflettono anche nell’abuso dei piani di offerta formativa fino a contrabbandare attraverso lo sperimentalismo didattico nozioni prive di qualsiasi serio fondamento. Il tutto viene giustificato dall’idea che la scuola è un laboratorio, un perpetuo cantiere in ristrutturazione. Quando ti si dice che la decisione di insegnare una bestialità come la “legge dissociativa dell’addizione” dipende dalla decisione dell’interclasse siamo a un passo dalla follia di attribuire all’interclasse la delibera se il teorema di Pitagora sia giusto oppure no. Dovrebbe essere chiaro che l’autonomia didattica può essere tanto maggiore quanto più i contenuti dell’insegnamento sono definiti sulla base di standard rigorosi e culturalmente seri.
Questo discorso porta naturalmente a quello della valutazione. Anche qui i fraintendimenti del senso dell’autonomia hanno prodotto guasti, facendo addirittura credere che la scuola possa gestire il processo di formazione degli insegnanti da sola, come se un medico non fosse in primo luogo un laureato in Medicina e un professore di filosofia un laureato in Lettere e Filosofia. La sacrosanta esigenza di formare insegnanti non soltanto forniti di conoscenze adeguate ma dotati, attraverso l’esperienza sul campo, di capacità didattiche, pedagogiche e relazionali, non significa pensarli come una corporazione di artigiani. Né si può pensare che gli insegnanti siano esenti da ogni valutazione. Anche qui non è possibile entrare nei dettagli, ma è difficile contestare il principio generale che la carriera degli insegnanti debba articolarsi in livelli da raggiungere sulla base di verifiche di merito. Al riguardo, occorre guardarsi da due idee parimenti sbagliate: quella di affidare interamente il processo di reclutamento e di valutazione alla figura isolata del preside, che può essere soggetto a pressioni clientelari o peggio; quella di costruire un processo di valutazione interamente basato su parametri quantitativi e su algoritmi, magari applicati meccanicamente da un preside manager, addirittura non insegnante o da “esperti scolastici” che non hanno mai insegnato per un’ora. Sono troppo evidenti i disastri provocati da questi pessimi sistemi di valutazione pretesamente oggettivi e, avendo spazio, potrei darne esempi clamorosi. Ritengo che il processo di valutazione debba farsi mediante sistemi di ispezioni condotte da commissioni miste di docenti di altri istituti, docenti in pensione, dal preside e da ispettori ministeriali.
Concludo con un’altra osservazione generale. Il nostro sistema dell’istruzione sia universitario che scolastico è un sistema profondamente ingessato in quanto è basato sul principio della staticità e inamovibilità nelle varie posizioni. Chi entra in una scuola tende a restarvi per tutta la vita per insegnare sempre le stesse cose e allo stesso modo, chi fa il preside lo farà per tutta la vita, chi assume una volta una funzione qualsivoglia è spinto a farsela riconoscere come funzione professionale a vita. È in qualche modo la controfaccia del problema del precariato. Ma un conto è la giusta aspirazione a un posto di lavoro stabile, altro conto è l’idea che questo posto diventi la poltrona su cui si resta seduti per tutta la vita. Occorre che il sistema promuova una dinamica di carriera, stimoli l’assunzione di funzioni diverse, e imponga la riqualificazione continua. Insegnare significa anche studiare per tutta la vita, migliorarsi continuamente per migliorare gli altri. Il merito e la conquista di livelli sempre più elevati, debbono essere la stella polare per ogni attore della scuola: insegnanti, studenti e famiglie.


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