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Messaggero: Docenti, scontro sulle 40 ore settimanali. Gelmini: tutelare la ricerca, ma più controlli

Il ministro: «Troppe assenze, non può accadere». L’ipotesi del badge

21/12/2009
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Il Messaggero

di ANNA MARIA SERSALE

ROMA - L’iniziale accoglienza bipartisan sulla riforma dell’università rischia di sfaldarsi in Parlamento. La lente d’ingrandimento delle Commissioni fa venire a galla molti punti controversi, che potrebbero rallentare l’iter e renderlo più tortuoso. Lo scontro è sulle 1.500 ore, in pratica 40 settimanali, il tempo con il quale si vuole misurare il lavoro dei docenti, fatto di attività didattica e di ricerca. «Ma questo principio è suscettibile di impugnazione per irragionevolezza», scrive il relatore della legge Giuseppe Valditara. Che aggiunge: «La norma rischia di risultare incostituzionale ed è foriera di possibili ricorsi». Ma vediamo che cosa viene contestato. Le 1.500 ore (8 al giorno, per 5 giorni) non prevedono alcuno spazio per le attività “libero-professionali”. I prof a tempo determinato, però, non avendo un contratto stabile, rifiutano il vincolo. Secondo punto: nel monte ore è compresa anche l’attività di ricerca. «Ma - sostiene Valditara - è francamente impossibile una quantificazione seria delle ore dedicate alla ricerca. Sarebbero ingenuamente fantasiosi o del tutto arbitrari criteri volti a desumere presuntivamente dalle pubblicazioni effettuate l’impegno annuale profuso in ricerca. Mentre la didattica è quantificata in molti Paesi Ocse, non vi è Paese al mondo che quantifichi la ricerca. Come ben sa chi la pratica, la ricerca si può fare ovunque. Ciò che conta sono i risultati». E lo studio personale, i compiti organizzativi o il tempo trascorso per la preparazione delle lezioni? Finiranno inevitabilmente per avere «una auto-certificazione soggettiva», osserva il senatore. Dunque, sì al giudizio sui risultati, ma non convince il criterio di “misurazione” in ore. «Né possiamo mettere tesserini e tornelli per entrare e uscire dall’università», osserva Vittoria Franco, senatrice del Pd, impegnata in Commissione cultura. Intanto, in qualche università spuntano i primi badge.
Mariastella Gelmini è però determinata: «E’ necessario che ci sia un monitoraggio delle presenze al lavoro dei professori. Gli studenti lo pretendono, ci sono state delle segnalazioni nei confronti di docenti che non vanno a lezione e non ricevono. Questo non può accadere. Forme di controllo sono necessarie, sono pronta a discutere delle modalità, tutelando anche la giusta richiesta di quei professori che fanno ricerca talvolta fuorisede».
Ma c’è anche un altro problema. «Le 1.500 ore - scrive il senatore nella relazione illustrata a Palazzo Madama - introducono una disparità di trattamento economico rispetto alla categoria dei docenti delle superiori, anch’essa foriera di ricorsi, dal momento che per ricercatori e professori universitari si richiede un impegno orario pari a quasi due volte e mezzo. Non a caso l’impegno delle 1.500 ore nella bozza iniziale del ddl era qualificato come “figurativo”».
Intanto Valditara insiste su un punto: «Dobbiamo ottenere la valutazione dei risultati» fatta dalla comunità scientifica, sulla base di pubblicazioni su riviste accreditate. E il malcostume? L’assenteismo di tanti prof che disertano lezioni e incontri? O gli interessi baronali fuori dalle università per incarichi ben remunerati a danno della didattica? Per il relatore della riforma si può intervenire «con la sospensione dello stipendio e con le sanzioni patrimoniali, fino al licenziamento, togliendo ai prof la possibilità di appellarsi al Consiglio universitario perché gli organi “domestici” finiscono sempre per assolvere».
L’altro nodo riguarda la gestione dei bonus e dei prestiti per gli studenti migliori (da restituire in parte dopo la laurea), criticati perchè il ministero affida alla Consap Spa le “prove nazionali” di selezione degli studenti meritevoli. I rettori obiettano che questo è un esproprio delle prerogative di “giudizio” dell’università. La Consap, infatti, non ha competenze specifiche: si tratta di una società nata nel 1993 dall’Ina, con l’obiettivo di svolgere funzioni assicurative pubbliche e di gestire fondi di previdenza e di garanzia (per esempio per le vittime della strada e della caccia), cose che nulla hanno a che vedere con prove di merito per studenti universitari. Al riguardo, viene inoltre contestato il fatto che il Fondo sia collocato presso il ministero dell’Economia e non quello dell’Università. Tra l’altro appare inadeguata la previsione di bilancio.
Altre contestazioni arrivano dal fronte dei ricercatori. Rifiutano l’incarico “a tempo”. L’introduzione di una sorta di tenure track, che consente alle università, accanto ad altre modalità di reclutamento, di assumere ricercatori a tempo determinato per due trienni, per poi promuoverli ad associati se conseguono l’abilitazione non li convince. «Siamo d’accordo sui principi del merito - dicono - ma è inaccettabile la nomina con scadenza: la ricerca di base ha tempi lunghi, inoltre l’Italia con i mezzi scarsi che ha versa in condizioni critiche, di gran lunga inferiori a quelle degli altri Paesi».


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