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Meno risorse e assunzioni, si allarga il gap tra gli atenei

L'università è forse il settore della pubblica amministrazione in cui le conseguenze delle politiche di rigore si sono manifestate con più intensità

05/09/2020
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Il Messaggero

 L'università è forse il settore della pubblica amministrazione in cui le conseguenze delle politiche di rigore si sono manifestate con più intensità. Questo è avvenuto per la combinazione tra i vari blocchi delle assunzioni (analoghi a quelli degli altri comparti) e i tagli al finanziamento. Dunque meno personale e meno fondi, con criteri che alla fine, al di là delle stesse intenzioni di chi li aveva introdotti, sono risultati particolarmente poco mirati. Anzi, come nota Lucia Rizzica nella sua analisi sull'evoluzione del personale pubblico, se l'idea era quella di premiare gli atenei più virtuosi l'effetto è stato quello di allargare il divario che già esisteva in precedenza. Soprattutto - e non è una sorpresa - a scapito del Mezzogiorno: le università meridionali sono quelle che hanno avuto la maggiore perdita di risorse, essendosi trovate a fare i conti allo stesso tempo con maggiori vincoli di bilancio e rette più basse.
LE ISCRIZIONINel caso dell'università i confronti e le analisi vanno fatti in rapporto al numero degli studenti piuttosto che a quello della popolazione. E questo naturalmente fa sì che le comparazioni risentano della variabilità nelle iscrizioni, a sua volta indotta da altri fattori socio-economici. Lo studio di Bankitalia prende quindi in considerazione i ragazzi con un diploma di scuola secondaria superiore, che rappresentano la platea potenziale delle università. Con questo metro di misure, le differenze territoriali sono vistosissime: al Sud si contano 27 dipendenti universitari per 1.000 studenti, contro i 38,5 del Nord e i 47,5 del Centro.
L'asse Nord-Sud non è il solo lungo il quale la politica dei risparmi ha avuto effetti diseguali. È interessante anche guardare cosa è successo nelle varie posizioni di insegnamento e ricerca. Tra il 2007 e il 2018 il totale dei ricercatori si è dimezzato, passando da circa 23 mila a 12.600 nel 2018. Il calo è stato piuttosto significativo anche per i professori ordinari, che sono scesi da 20 mila a 13 mila nello stesso periodo. La riduzione del numero dei ricercatori è stata in parte compensata da un incremento del numero dei professori associati, anche in seguito a specifici interventi.
Come nel caso generale della pubblica amministrazione, i cambiamenti si sono riflessi in modo immediato sull'età media del personale universitario, passata dai 47,5 anni del 2001 ai 53 del 2018. Dietro il dato complessivo, comune come si è detto agli altri settori del lavoro pubblico, ci sono tendenze ancora più specifiche che riguardano i docenti, ossia coloro che quotidianamente si devono confrontare con i ragazzi. C'è stato un calo del numero dei professori ordinari relativamente più anziani ma questa tendenza non ha compensato comunque la più massiccia caduta quantitativa che ha coinvolto i giovani ricercatori: quelli con meno di 40 anni erano 10 mila nel 2008 e si sono ridotti a poche centinaia dieci anni dopo.
IL FENOMENONello studio si fa osservare come il fenomeno possa dipendere da un trend generale, che porta i giovani ad entrare sempre più tardi nel mondo del lavoro per la necessità di conseguire una qualificazione professionale più elevata rispetto a quella richiesta in passato. Per di più l'afflusso di professori associati non ha contribuito in modo particolare al ringiovanimento del corpo docente perché quelli che sono riusciti ad affermarsi avevano in prevalenza un'età superiore ai 40 anni. La conclusione generale che si può trarre dall'analisi suona insomma piuttosto amara: l'università che dovrebbe contribuire all'innovazione e allo sviluppo del Paese è sempre più vecchia ed allo stesso tempo sempre più diseguale sul piano geografico.
L. Ci.


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