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Marciare per la scienza contro paure e false speranze

di Elena Cattaneo

22/04/2017
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la Repubblica

E' stata 

una settimana difficile per la scienza, in cui si sono confusi i fatti con le opinioni. Prima un programma del servizio pubblico ha alimentato la disinformazione sui vaccini, poi la sentenza di un tribunale che stabilirebbe un nesso di causalità tra cancro e uso del cellulare, con buona pace dell’Organizzazione mondiale della sanità che dal 2011 classifica questi campi elettromagnetici nella categoria 2B, cioè dei “possibili cancerogeni” insieme ad esempio alla caffeina e agli estratti dell’aloe vera e del ginkgo biloba, quella in cui le prove sono limitate, sia nell’uomo sia negli animali. L’Oms nel dettare alcune raccomandazioni sull’uso del cellulare, osserva che «al momento nessuno studio suggerisce una prova consistente di eventi avversi per la salute dall’esposizione » alle onde dei telefonini. In attesa di leggere le motivazioni del giudice del tribunale di Ivrea, si resta colpiti di fronte a una giurisdizione che ancora una volta, così come accaduto da ultimo per i vaccini, Stamina e Xylella, ritiene di poter risolvere questioni di estrema complessità con il “libero convincimento” del magistrato a valle di “consulenze tecniche” che propongono esiti difformi dall’orientamento scientifico prevalente, che per sua natura non può essere “innovato” in un’aula di tribunale. Evidentemente questi magistrati, seppur ispirati da intenti compassionevoli, nel decidere arbitrariamente un problema ritenuto come scientificamente controverso, finiscono con l’alimentare paure o false speranze, ad esclusivo beneficio di coloro — generalmente pochi e “specializzati” — che su questi sentimenti speculano per professione. Vi sono ipotesi di interventi normativi per aiutare i giudici a decidere sulla base della migliore scienza. Alcuni li abbiamo individuati in Senato nella relazione finale sull’indagine conoscitiva sulla vicenda Stamina.

Non ci sarà, però, nessuna riforma di legge efficace senza una complessiva rivalutazione politica e sociale di quel che la scienza, la ricerca, la cultura (tutta) significano per il futuro del Paese. A quel che comporta, ad esempio, l’essere l’ultimo paese d’Europa per percentuale di laureati sulla popolazione e ben al di sotto della media europea per lavoratori occupati in ricerca e sviluppo.

Sarebbe opportuno che le istituzioni chiarissero quanta volontà vi sia nel riconoscere la ricerca e l’istruzione come i contesti principali nei quali investire strutturalmente perché si sviluppino tra i cittadini competenze in grado di creare un capitale cognitivo, che sia un valore aggiunto a beneficio di tutti. Anche nelle condizioni di “ristrettezza economica” che stiamo attraversando. Oggi si potrebbe dimostrare questa volontà ad esempio restituendo — perché di questo si tratterebbe — alla ricerca pubblica italiana, mettendoli a bando, quei 430 milioni di euro di risorse pubbliche accantonati a mo’ di tesoretto dall’Istituto italiano di Tecnologia, fondazione di diritto privato, che nel corso degli ultimi 14 anni si è vista corrispondere dallo Stato circa 1,7 miliardi di euro.

Che la ricerca possa essere un investimento attrattivo di risorse, lo ha ricordato da ultimo il Presidente del Cnr, il più grande ente di ricerca italiano con 8.400 dipendenti che, pur con i suoi limiti, può rivendicare per ogni euro ricevuto dallo Stato, 0,6 euro intercettati su base competitiva. Lo ricorda l’Università di Padova, con i suoi 27 vincitori dei prestigiosi bandi Erc, soldi europei che entrano in Italia. Restituire oggi mezzo miliardo alla ricerca in tutti gli ambiti del sapere sarebbe il segnale “forte e chiaro” atteso e appropriato a una classe dirigente che voglia essere riconosciuta come espressione di un Paese che “crede nella scienza e non negli apprendisti stregoni”. Sarebbe il più cospicuo investimento per la ricerca di base degli ultimi decenni, da accompagnare con una serie di riforme utili a rendere più trasparente e competitiva un’assegnazione di fondi che sconta la colpevole mancanza di una agenzia della ricerca.

Anche in Italia oggi si scenderà in piazza per la Marcia della Scienza, manifestazione lanciata negli Usa oscurantisti di Trump contro la censura, gli abusi politici e i tagli agli investimenti nella ricerca. Si svolgerà in contemporanea in più di 500 città in tutto il mondo. Pensare di scendere in piazza per il diritto a una scienza libera da condizionamenti è sembrato a lungo irragionevole. Quasi che chi ama e vive di scienza ritenesse dovuto una sorta di ossequio sociale che lo sollevasse dall’onere del confronto pubblico, tanto evidenti sono i benefici in termini di salute e benessere che essa ha prodotto. Questa posizione è sbagliata. Per essere riconosciuti per quel che si fa, gli studiosi devono rendere conto ai cittadini, devono assumere una responsabilità pubblica, aiutare nella costruzione della democrazia fuori dai loro laboratori e mostrare come si lavora e cosa si produce, inclusi tutti i fallimenti che si incontrano prima di ogni successo.

L’autrice è docente all’Università di Milano e senatrice a vita


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