Manifesto: Usano Morucci per attaccare l'università. Ecco com'è andata davvero
Lo scandalo Morucci, con tutte le sue ambiguità e gli errori, ha molto poco a che fare con l'ostracismo ai brigatisti e con il rispetto delle vittime. È solo una scusa per attaccare ben altri obiettivi
Alessandro Portelli
Così, la Sapienza, la maggiore università italiana, «è ostaggio di trecento piccoli criminali»: lo annuncia con tutta la sua autorità il sindaco di Roma Alemanno, e lo diffonde, con le necessarie virgolette, in prima pagina e titolo a sei colonne all'interno, il più autorevole giornale di centrosinistra; gli fanno eco giornali radio e servizievoli rassegne stampa suscitando il giusto allarme nella pubblica opinione, telefonate scandalizzate di ascoltatori e interventi preoccupati in forum sulla rete. Il tutto a seguito del peraltro non avvenuto incontro fra l'ex brigatista Morucci e un gruppo di studenti del dipartimento di anglistica della mia facoltà sponsorizzato dal mio collega e compagno di stanza Giorgio Mariani.
Ho seguito la cosa fin dall'inizio, quindi vorrei intanto raccontare per diretta conoscenza come sono andate le cose. Mariani è stato avvicinato da un funzionario dell'Antiterrorismo (di cui è disponibile e a conoscenza delle autorità nome, cognome e funzione), che nell'ambito delle sue responsabilità gli ha chiesto di far incontrare Morucci con alcuni studenti della facoltà. Mariani ha commesso l'errore di fidarsi. Stava tenendo un corso sul tema del rapporto fra violenza e memoria, quindi la testimonianza di un brigatista pentito poteva avere senso; ha sottoposto la cosa agli studenti del corso che si sono detti interessati. Quando me ne parlò la cosa era già decisa; mi parve problematica e discutibile (anche dato il personaggio in questione); tuttavia fui d'accordo che la fonte da cui veniva la richiesta, la presenza prevista di esponenti delle forze dell'ordine, il fatto che si sarebbe trattato solo di un incontro informale con un gruppo ristretto di studenti e dottorandi (e non di una "lezione" e tanto meno di una "conferenza" pubblica, come hanno disinformato i giornali) e che non ne sarebbe stata data notizia al di fuori dei diretti partecipanti, potevano renderla indolore. D'altra parte, Morucci aveva già parlato molto più pubblicamente, accompagnato dalla polizia nonché da Antonello Venditti e da Giulio Andreotti, in diverse situazioni, tra cui di recente il liceo Giulio Cesare, e non era successo niente né alcuno aveva menato scandalo.
Poi Mariani ha ritenuto corretto informarne comunque il dipartimento, e qualcuno dei colleghi ha preso la palla al balzo e ha passato tutto, compresi i messaggi e mail interni, alla stampa - che a sua volta reagisce pavlovianamente alla figura del "brigatista in cattedra" e non ritiene necessario fare il proprio mestiere, informandosi prima di sparare titolacci. Così un evento destinato a restare fra quattro mura e chiudersi in due ore si è trasformato in un caso nazionale e una saga di cui non si vede la fine. Il rettore Frati ne ha approfittato per tirare in ballo la storia della visita del Papa e fare i conti con quella parte dei docenti che non hanno votato per lui (ricordiamocelo: nessuno ha «impedito al Papa di parlare», è stato lui a rinunciare quando ha saputo che non tutti erano d'accordo che aprisse lui l'anno accademico). E Alemanno ne approfitta per proclamare che la Sapienza è peggio del clan dei casalesi e annunciare che «dobbiamo liberarci» dei «piccoli criminali» e che «ci sono dei cambiamenti culturali da fare» - cioè: bisogna ripulire l'università dei docenti non di destra e garantire che l'insegnamento sia conforme all'ordine vigente.
Lo scandalo Morucci, con tutte le sue ambiguità e gli errori, ha molto poco a che fare con l'ostracismo ai brigatisti e con il rispetto delle vittime. È solo una scusa per attaccare ben altri obbiettivi. Il primo, naturalmente, sono la sinistra e i laici, rei di stare in minoranza, di non inginocchiarsi davanti a questo Papa, di non venerare il libero mercato e magari di sentirsi ancora antifascisti. Il secondo è il movimento degli studenti: di tutto si parla meno che delle questioni che il movimento sta sollevando, in modo da non dover dare risposte a una domanda sociale che cresce (ricordiamo come la stessa figura del «brigatista in cattedra» fu usata, allo stesso modo disinformato e strumentale, contro la Pantera?). Il terzo è l'università pubblica nel suo complesso: anche per questo nessuno ha fiatato quando Morucci è andato al Giulio Cesare o in altre situazioni pubbliche, e lo scandalo scoppia adesso all'Università.
Oggi, e non solo da destra, l'università pubblica è rappresentata solo come corruzione, nepotismo, degrado, spreco, fallimento e brigatisti in cattedra: tutte armi in mano a un governo che la sta distruggendo a favore di improbabili fondazioni e di alternative private. Ora, uno si aspetterebbe da questa istituzione uno scatto di orgoglio; e non basta l'ammirevole e solitario intervento di Umberto Eco qualche giorno fa sul manifesto. Il problema è che corruzione e nepotismo non saranno la regola assoluta, ma certo sono deviazioni sempre più diffuse, sfacciate, e dilaganti: basta ricordare quello che proprio Repubblica scrisse, mai smentita, il giorno prima che il nostro corpo docente eleggesse a grande maggioranza Frati rettore.
Quelli che dovrebbero condurre il repulisti e i «cambiamenti culturali» auspicati da Alemanno sono proprio i responsabili e i profittatori di questa situazione. Infatti all'università una parte sana c'è, e sospetto che sia rappresentata in buona parte proprio da quei trecento «piccoli criminali» di cui ci dovremmo sbarazzare. Parafrasando Amleto: l'università è fuori sesto; possibile che spetti proprio a noi refrattari il compito di rimetterla a posto?