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Manifesto-Università, l'involuzione della specie

C'è un'onda lunga che investe da tempo l'Europa della conoscenza. L'onda della competizione tra cervelli e dell'intermittenza del rapporto di lavoro intellettuale e artistico, non più solo quello ma...

17/04/2004
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il manifesto

C'è un'onda lunga che investe da tempo l'Europa della conoscenza. L'onda della competizione tra cervelli e dell'intermittenza del rapporto di lavoro intellettuale e artistico, non più solo quello manuale. Tutti sottoposti a forme di flessibilità feroci e concentrate in larga misura sulle spalle dei neo-assunti o sulle categorie di lavoratori più deboli. Una tempesta che si salda con il conflitto, anch'esso di lungo periodo, sulla proprietà intellettuale e sulla produzione dei saperi. Su produzione artistica, scuola, università e ricerca si abbattono un po' ovunque riforme politiche gestite e pensate in splendida solitudine dai vari governi. La vera posta in gioco, da noi come altrove, non è costituita soltanto da rivendicazioni sindacali, posti di lavoro qualificati o meno, carriere accademiche garantite da fondi e regolamenti. La battaglia che si gioca sulla scienza, sul sapere e sulla ricerca interroga le società postfordiste con la vastità e la complessità dei suoi dilemmi etici, nodi politici, ricadute sociali, relazioni economiche e sviluppo tecnologico. Da oltre cinquant'anni nelle aule e nei laboratori si specchia, più che altrove, il volto trionfante delle società occidentali. Per questo, eventuali sconfitte o arretramenti sul piano dei diritti investono fin dalle fondamenta molte delle relazioni che si intrecciano altrove. Un mondo che non sa "costruire" idee non sa prefigurare il proprio futuro. Dall'Inghilterra all'America, dalla Francia all'Italia, nel mondo scientifico c'è un forte malessere. E una protesta a volte impetuosa e in qualche caso perfino vincente. Il 23 aprile sfilerà a Roma il mondo delle università italiane. Anche per questo, forse, è opportuno riflettere su quanto accaduto finora. Nell'Italia di Berlusconi-Moratti e non solo.

La vittoria della ricerca francese

In Francia all'inizio di gennaio decine di migliaia di ricercatori sono scesi in piazza e il 9 marzo 1.455 dirigenti di laboratorio e 2.103 responsabili tecnici di ricerca si sono dimessi dalla guida dei laboratori. Una protesta che ha portato alle dimissioni del ministro dell'istruzione. Il suo successore, François Fillon, ha accolto le richieste degli scienziati. All'inizio di aprile ha annunciato che entro il 2004 saranno reclutati negli istituti pubblici 550 nuovi tecnici e ricercatori a tempo indeterminato e entro il prossimo gennaio saranno create oltre 1.050 cattedre di insegnamento nelle università. Un dietro front non scontato per il mondo politico transalpino, dove il governo non indulge nella pratica della concertazione e non è morbido verso le proteste di piazza. "E' un gran giorno per la ricerca francese", ha commentato Alain Trautmann, il biologo-portavoce del movimento degli scienziati. "Sono passati tre mesi dall'inizio della nostra protesta e abbiamo ottenuto tutto quello che avevamo chiesto con urgenza". Protesta che, secondo i sondaggi, è stata appoggiata dall'80% dei francesi.

La palude italiana

In Italia la situazione non è altrettanto rosea. Nonostante la ministra Letizia Brichetto Moratti sia contestata più o meno all'unanimità da tutti i soggetti del mondo della scuola, dell'istruzione, dell'università e della ricerca, i progetti del centrodestra procedono. Né l'opposizione sociale e politica raggiunge una massa critica tale da "bucare" l'inflessibile opacità mediatica italiana. Si sono susseguite in questi mesi decine e decine di manifestazioni "dal basso", in genere spontanee e autoconvocate. Qualcuna riuscita, come quella dei genitori e dei bambini delle scuole elementari, qualcuna meno. In centinaia di scuole e decine di atenei si organizzano dibattiti e mobilitazioni contro il ministro e le sue riforme. I sindacati, più o meno generosamente, hanno spesso sostenuto le proteste. L'opposizione invece ha tenuto bassa la voce. Certo, è aperta al dialogo, promette future battaglie parlamentari, quando proprio non può farne a meno occupa qualche piazza. Ma non sembra comprendere fino in fondo, e accettarne il prezzo, che il sapere e la formazione sono il futuro di questo paese. Una battaglia politica che non si esaurisce solo in Italia, ma riguarda tutte le società postfordiste. Né vale come consolazione il recente "manifesto" del candidato leader, Romano Prodi, che si limita a parlare della ricerca affermando che "l'Europa deve tornare a creare grandi università, laboratori e centri d'eccellenza capaci di attirare i migliori cervelli da tutto il mondo", spiegando che "ci vuole il coraggio di adottare rigidi criteri di qualità nella scelta degli investimenti e di resistere alla facile tentazione di distribuire finanziamenti a pioggia". L'ossessione per "l'eccellenza" (e per la minaccia di Usa, Cina e India) non esaurisce affatto il problema della formazione e della ricerca, né quello del suo valore "medio", per dir così, e della sua relazione delicata, trasparente e "non-precaria" con la società e con il mondo della produzione. Per quanto riguarda la scuola, ad esempio, la riforma partorita a viale Trastevere cancella il tempo pieno, riduce le risorse per l'istruzione e la formazione del personale, non sposta di una virgola il nodo dei precari e affida tutto a un miracolistico "tutor".

E' difficile sperare che la protesta degli atenei basti alle dimissioni della ministra dell'Istruzione. La lotta per bloccarne le spinte "riformatrici", però, è ancora aperta. E allora proprio l'esperienza francese dovrebbe far riflettere. Mantenere lo status quo, infatti, non è più possibile. Né lo è opporsi senza preparare alternative, perché la continua demolizione del ruolo pubblico ci rende tutti più deboli. Sarebbe quindi opportuno che il dibattito non si riducesse a un confronto più o meno nobile tra docenti, famiglie, ricercatori, studenti. E' ora che la società nel suo insieme prenda la parola pubblicamente.

Europa, cervelli al lavoro

L'Europa ha afferrato fino in fondo il proprio intellectual divide con gli Stati uniti. E l'eurocommissione ha lanciato da tempo l'allarme: i ricercatori europei sono troppo pochi, entro il 2010 ne servirà un milione in più rispetto agli attuali. A Bruxelles iniziano a comprendere che non ha senso investire nella formazione di cervellli che sono poi costretti a migrare altrove. E che la ricerca di base, curiosity driven, ha bisogno di fondi quanto e forse più dell'agricoltura e delle nanotecnologie. Le università pubbliche diventeranno gli uffici ricerca e sviluppo dell'industria? E gli eventuali brevetti che fine faranno? Come valutare la ricerca e distribuire i finanziamenti? Lo scenario dispiega diverse opzioni. Lasciarle alla discussione a porte chiuse degli esperti sarebbe esiziale per società complesse come la nostra.

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