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Manifesto: Uccisa la sessione di primavera per avere più soldi

La Sapienza

20/05/2009
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il manifesto

Andrea Tornago ROMA

Viene spontaneo riprendere un ritornello, peraltro inelegante, che ha scandito il moto dell'Onda lo scorso autunno: «Non pagheremo noi la crisi». Questa volta però la crisi gli studenti la pagheranno, eccome. Mentre a dicembre l'Onda s'alzava per le strade della capitale, il Senato accademico del più grande ateneo d'Europa lavorava ossequioso per adeguarsi alle leggi del ministro Gelmini.
Nemmeno un mese dopo il punto più alto dell'Onda, i tre giorni di assemblea studentesca nazionale alla Sapienza a metà novembre 2008, il Senato accademico decideva all'unanimità di eliminare la sessione di laurea di febbraio (S. A. del 16/12/08). Da quest'anno non sarà più possibile laurearsi nella sessione primaverile. Forse chi è lontano dal mondo universitario non percepisce l'importanza della novità, ma le conseguenze sono pesantissime. Uno studente perfetto, diciamo di quelli che non perdono un colpo, si dovrebbe laureare entro il mese di ottobre del terzo anno. In realtà sono pochi gli studenti che riescono a finire in autunno, forse proprio perchè la velocità spesso non coincide con la qualità e lo spessore degli studi. Anzi, quasi sempre lo studente migliore, più incline ad approfondire e a smarrire le proprie certezze, si prende qualche mese in più per scrivere una buona tesi. D'ora in poi chiunque si spingerà oltre dicembre sarà considerato «fuori corso», con conseguenze inquietanti.
Il guaio nasce da un cocktail letale di due leggi, il decreto ministeriale 270/04 (ministro Mussi) e il decreto legge 180/08 (ministro Gelmini), che insieme vincolano il finanziamento che lo stato assicura agli atenei a criteri detti «di qualità». In particolare il Dl 180, all'art. 2 stabilisce tre criteri con cui vincola il Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) a disposizione di tutti gli atenei italiani: «La qualità dell'offerta formativa e risultati dei processi formativi, la qualità della ricerca scientifica e la qualità, l'efficacia e l'efficienza delle sedi didattiche». Il rettore della Sapienza, Luigi Frati, traduce brutalmente il tutto nel rapporto tra «numero degli studenti che si laureano in corso e numero dei nuovi immatricolati», rilevato dal ministero al 31 gennaio di ogni anno. Chiunque non sia laureato o nuovamente iscritto entro il 31 gennaio sarà semplicemente «un dato perso» per l'università, e su scala nazionale causerà milioni di euro in meno per gli atenei. Come evitare di perdere tutti questi soldi? Semplice, per i presidi e i docenti della Sapienza: facendo sparire dalle rilevazioni i fuori corso, con uno stratagemma che se attuato sarebbe diabolico. Si sta pensando di estendere l'istituto del part-time, che fin'ora ha riguardato solo gli studenti lavoratori, a tutti gli studenti che non «producono»: chi è troppo lento, in questa inutile corsa, dovrà laurearsi impiegando il doppio del tempo e pagando il doppio delle tasse, e anche i dispendiosi fuori corso scompariranno ufficialmente agli occhi del ministero salvaguardando il Fondo di finanziamento per le università.
Nel più completo silenzio, e nel disinteresse generale, un'intera classe dirigente accademica ha deciso di consegnare la Sapienza in pasto alle imprese, di venir meno alla Costituzione, di convertire più rapidamente che mai l'università in una fabbrica che sforna pezzi per il mercato del lavoro.


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