Manifesto: Tre piaghe: tagli, mercato e baroni
L'Italia è il paese Ocse che spende meno per l'università. Gli stipendi dei professori, però, salgono automaticamente, senza controlli sulla qualità del loro lavoro. E il sistema produttivo non investe sulla ricerca
Giorgio Salvetti
Studenti, dottorandi e lavoratori dell'università hanno almeno tre ottime ragioni per protestare. Il governo taglia fondi nonostante l'Italia sia il paese Ocse che investe meno nell'università. Il sistema non funziona, non produce laureati. In più, è viziato dai privilegi e dal nepotismo dei baroni. E il mercato italiano non investe in ricerca, produce disoccupazione intellettuale e condanna gli studenti alla precarietà.
Contro il governo
La spesa totale per le università in Italia nel 2005 ammontava a 16.700 milioni di euro. Lo stato contribuisce per il 67%, le tasse degli studenti per l'11,7%, altri enti pubblici e privati per il 35%. Le famiglie investono nell'educazione universitaria 1.379 milioni di euro (+35% dal 2000 al 2005), 380 milioni nel caso delle università private (+40%). La spesa media di iscrizione è 730 euro per le statali e 3 mila per le private. La spesa universitaria in rapporto al Pil è pari allo 0,9%, rispetto a una media dei paesi Ocse dell'1,3. Si tratta della più bassa d'Europa. Mentre in Corea il rapporto è pari al 2,4%, in Canada al 2,8% e negli Usa al 2,9%. Anche rispetto alla spesa pubblica totale, l'Italia è ultima con solo l'1,6% destinato all'università (media Ue 2,8%). Per ogni studente italiano lo Stato investe 8.026 dollari, contro una media Ocse pari a 11.512. I tagli Tremonti-Gelmini non fanno che aggravare pesantamente la situazione.
Solo per il taglio dell'Ici, all'università arriveranno 467 milioni in meno. Nel giro di 5 anni il governo prevede una riduzione del fondo di finanziamento ordinario alle università pari all'1,5 miliardi su un totale di 7,4 miliardi (-10,3%). Si passerà da 63,5 milioni di tagli nel 2009 fino a tagli di 455 milioni nel 2013. Inoltre è bloccato il turn over delle assunzioni. Solo il 20% del risparmio dovuto ai pensionamenti potrà essere reinvestito in assunzioni: un'assunzione ogni 5 pensionamenti. Eppure in Italia i professori non sono tanti, 29 studenti per ogni docente, contro una media Ue di 16,4. La manovra del governo è una mazzata mortale per gli atenei italiani che rischiano il fallimento. Paradossalmente non basterebbe neppure aumentare le rette. Per legge le tasse non possono superare il 20% del fondo di finanziamento ordinario, e siccome il governo taglia proprio questo fondo, taglia anche il potenziale aumento delle tasse.
Contro i baroni
Se ne parla pochissimo: i professori universitari hanno un privilegio raro che li accomuna a parlamentari, magistrati e alti gradi dell'esercito (d'altronde in parlamento ci sono molti prof). Il loro stipendio non è regolato da un contratto nazionale di lavoro ma aumenta in modo automatico ogni due anni. Non importa se il datore di lavoro, ovvero lo stato, abbia più o meno disponibilità, o se l'università produca bene o male. Loro, comunque, hanno il diritto di guadagnare di più. Un docente dopo 15 anni di carriera guadagna una media di 29.287 euro all'anno contro una media Ocse di 37.832 e un media Ue di 38.217 (un prof tedesco arriva fino a 50.119 euro l'anno), ma mentre un lavoratore italiano «non accademico», oltre a guadagnare meno di un pari grado tedesco deve sottostare alla contrattazione, gli stipendi dei prof lievitano motu proprio. E' proprio questo meccanismo a far saltare il banco. Gli stipendi infatti costituiscono ben l'88% del fondo ordinario elargito dallo Stato. Con i tagli questa percentuale è destinata ad arrivare fino al 90%-100%. Un docente ordinario della Statale di Milano guadagna in media 3.654 euro al mese, un associato 2.660 euro al mese, un ricercatore 1.838 euro (ma parte da 1.00 euro). Gli scatti per i prof salgono dell'8% ogni due anni nei primi anni di carriera, del 6% dopo qualche anno, e del 2,5% a fine carriera. A questi va aggiunto un aumento annuo medio del 2,5-3%. Il governo non intende più farsene carico e li scarica sui bilanci degli atenei. Lo slogan più riuscito degli studenti in protesta è «La vostra crisi non la pagheremo noi»: di certo la crisi non la pagheranno i loro professori. Mentre le retribuzioni dei prof salgono per magia, i lavoratori non docenti solo da un mese possono usufruire del contratto firmato nel 2006 e il governo già gli riduce lo stipendio tagliando i compensi accessori del 10%.
Gelmini, inoltre, ha rinviato sine die la costituzione della «Agenzia nazionale della valutazione dell'università e della ricerca» progettata ma non realizzata dall'ex ministro Mussi. Significa che i prof potranno continuare a lavorare senza controllo, e senza alcun controllo saranno anche le modalità di reclutamento dei giovani in una situazione di concorsi spesso viziati da nepotismo. E i tagli colpiscono in modo indiscriminato senza tenere conto delle differenze tra atenei e senza nessuna valutazione della proliferazione spesso sconsiderata dei corsi. Un ordinario ha l'obbligo di dedicare 350 ore alla didattica all'anno, 250 ore se non è a tempo pieno, ma in questo caso può fare anche altri lavori come professionista. E' vero che poi esiste, o esisterebbe, il lavoro di ricerca (secondo un criterio fissato dalla Ue un prof lavora in tutto fino a 1512 ore l'anno) ma, in assenza di meccanismi di valutazione, tutto è lasciato alla buona volontà dei singoli.
Il risultato è che la produttività dell'università italiana è pessima. Nonostante 305 mila nuovi immatricolati, per un totale di 1 milione e 130 mila iscritti, l'Italia è l'ultima in Europa per numero di laureati con solo il 13% nella fascia di età tra 24 e 65 anni (media Ue 24%; Usa 38%, Giappone 41%). Rispetto all'Europa siamo sotto di 3,5 milioni di laureati. Il 20% degli immatricolati abbandona al primo anno. Il 50% non arriva alla laurea. Anche se da quando esiste la laurea breve le cose sono leggermente migliorate, i fuori corso nel 2006 erano ancora il 66% dei laureati. E l'università italiana attrae solo l'1,7% di alunni stranieri (contro l'11% della Gran Bretagna, il 9% della Germania e l'8% della Francia). I sistemi di reclutamento hanno formato una classe docente, vecchia e maschia. L'università italiana è l'ultima in Europa per il numero di donne docenti (solo il 32%) che scende fino al 17% nel caso dei professori ordinari. Mentre ben il 55% dei prof ha più di 50 anni e gli ordinari sopra i 60 anni sono il 45%. E' vero che i nostri laureati sono più bravi degli studenti stranieri e i nostri dottorandi fanno ottima figura all'estero. E anche per quanto la ricerca l'Italia vanta ottimi esempi. Ma il sistema nel suo complesso è in pessime condizioni. Il governo se ne fa scudo, non fa nulla per migliorarlo (la riforma annunciata dalla Gelmini finora è un mistero). Il gioco è semplice, accentuare tutti i possibili difetti dell'università pubblica per giustificare il taglio delle risorse e premiare le università private.
Studenti, ricercatori e personale tecnico sono circondati da un parte dai privilegi della casta e dall'altra dai tagli del governo.
Contro il mercato
Dietro i difetti degli accademici si nasconde un sistema economico che non obbliga l'università a migliorarsi perché non la ritiene utile. Il mercato italiano non richiede laureati. Il tasso di disoccupazione tra 25 e 64 anni è più alto della media Ue per i laureati mentre è più basso per i diplomati. L'Italia è l'unico paese europeo in cui i disoccupati laureati sono più dei loro pari-età diplomati. A un anno dalla laurea solo il 53% trova lavoro (per un guadagno medio di 1000 euro) e ben il 48% è precario, mentre a cinque anni dalla laurea trova lavoro l'85%, con un stipendio medio di soli 1.300 euro e ben il 17% è ancora precario. Rimane forte il meccanismo ereditario e classista delle professioni: il 44% degli architetti ha un figlio laureato in architettura, il 42% dei giuristi ha un figlio laureato in giurisprudenza, il 41% vale per i farmacisti, il 39% per medici e ingegneri. Non solo. Il sistema industriale, inoltre, non attrae fondi privati. Si tratta di un sistema di piccole e medie imprese che continua a preferire la produzione di prodotti a basso valore aggiunto che non richiedono sviluppo tecnologico. Si preferisce risparmiare sul costo del lavoro, piuttosto che investire in ricerca, istruzione e università. «Pensare che siano i privati a salvare le casse degli atenei, significa non vedere la realtà del nostro sistema produttivo - spiegano gli amministratori di un ateneo - i privati qui non li vedi neppure in fotografia». Significa che per cambiare l'università, non basta opporsi ai tagli di Tremonti e alla casta dei professori, ma addirittura bisogna cambiare il mercato.
Contro tutti
Tanti giovani che in questi giorni protestano hanno mille altre ragioni per non gradire il mondo che gli viene servito, dall'ambiente, alla guerra, dalla casa alla famiglia. Che se ne rendano conto o meno, per cambiare l'università bisogna cambiare questo mondo. Il '68 è servito? No, manca lo scontro generazionale. Il '68 è un fantasma che aleggia sulle teste degli studenti esponendoli alla sensazione del dejà vu e alla coazione a ripetere gesta di altri tempi. Rimane il feticcio di una generazione che fu ribelle e che ora o è saltata sul carro del vincitore o pretende che già a venti anni ci si debba sentire vecchi, sconfitti e rassegnati. Ma anche le crisi di coscienza del secolo scorso non le dovrebbero pagare gli studenti. 0'9% È la quota del Pil
che l'Italia spende per l'università: la più bassa dei paesi Ocse. E Tremonti vuole tagliare un altro miliardo e mezzo in cinque anni