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Manifesto: Scuola senz'arte. Ma di parte

Il nostro sistema educativo è arretrato, deprime la creatività, adotta un metodo d'insegnamento astratto. Ma si può cambiare Luigi Berlinguer

07/07/2007
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il manifesto

La scuola italiana è stata più di altre, in Europa, marcatamente di classe. Ha puntualmente svolto il ruolo assegnatole di conservazione di un equilibrio sociale discriminatorio. L'analfabetismo è stato debellato molto in ritardo rispetto ad altri paesi europei, danneggiando così sia gli esclusi, sia le loro generazioni successive, visto che il livello culturale dei genitori costituiva una causa pesante di condizionamento scolastico dei figli.
Anche l'espansione della scuola secondaria giunge in ritardo nel nostro paese: ora è finalmente in crescita, ma anche qui siamo indietro e con gravi strozzature sociali e culturali. Inoltre, la debole e insufficiente preparazione di base è costantemente esposta all'obolescenza e a forme di analfabetismo secondario di ritorno, privando le persone delle conoscenze necessarie per affrontare quotidiani problemi di vita e di lavoro.
Nonostante la crescita degli ultimi decenni siamo lontani dalla scuola equa e di qualità di cui abbiamo assoluto bisogno. Una scuola di classe: duole constatare che un tema così cruciale sia così poco presente nella pubblicistica e negli scritti dei maîtres à penser che discettano sulla scuola nei quotidiani.
A mio avviso la sinistra, la stessa tradizione comunista, hanno sottovalutato questo aspetto. La discussione educativa in Italia è socialmente poco sensibile e soprattutto ancorata a vecchi schemi, superati dalla nuova realtà sociale (salvo eccezioni). La scuola di cui si parla non esiste più. Anche per questo il dibattito attuale sulla scuola si arroventa di ideologismi antichi, ignora le rilevantissime novità che hanno investito il campo dell'education. Lo stesso pensiero marxista ha sofferto dell'egemonia culturale del neo idealismo proto novecentesco, che è alla base del nostro impianto didattico culturale. Ad esempio, si sono presto archiviati Banfi e De Bartolomeis. Peggio, si è sepolta Maria Montessori, la più alta presenza italiana nell'education, e con lei quanto di straordinario anticipo essa rappresentava per la prospettiva di una scuola equa e di qualità. Analoga sorte, su altro piano, sembra esser capitata all'insegnamento di Emma Castelnuovo e di don Milani, più evocati che praticati.
Non si è posto, cioè, l'accento sul fatto che la discriminazione sociale scolastica ha riposato, certo, sulle differenze censitorie e culturali delle famiglie, ma trova il suo strumento principale nell'impianto didattico e metodologico della nostra scuola. Si è voluto un insegnamento deduttivistico, autoritario, calato dall'alto; i corsi partono dalle definizioni, dalle leggi generali, dalle regole astratte, dalla sistematica classificatoria, in una parola dall'astrazione, senza motivare, dare senso, rispondere a interrogativi propri, a curiosità specifiche. Fin dall'inizio si costruisce un muro oggettivamente selettivo, che ha funzionato da selezione sociale. Non si vuole qui revocare in dubbio la necessità dell'astrazione, della concettualizzazione, senza le quali non esiste cultura. Si discute però l'arbitraria identificazione del sapere con l'immediata e preventiva teorizzazione, e non la teorizzazione in sé; si contesta la scelta puramente gnoseologica e l'ideologico rifiuto di ogni momento empirico, fisico, fattuale, come componente anch'esso della conoscenza e come tramite di stimoli e motivazioni necessari in ogni apprendimento. Come il primo momento di apprendimento.
Alla scuola è stata assegnata una mera funzione di trasmissione della conoscenza, con una rigida gerarchia interna tra saperi: e cioè, tra saperi presunti nobili, veri, e saperi considerati minori, i primi funzionali alla formazione della «classe dirigente», destinati a chi comanda, e i saperi poveri riservati ai più, agli esecutori e tecnici (o presunti tali). Questo il senso vero della voluta distinzione didattica e di contenuto culturale fra il liceo classico e gli istituti tecnici o - peggio - professionali. Nei primi la qualità, negli altri la povera quantità. Non voglio sminuire qui la qualità del liceo classico, certamente ragguardevole allora, ma il fine di quella gerarchia, la natura dell'impianto didattico deduttivistico, la condanna di certe scuole tecniche alla sola e piatta empiria, separando tecnica e scienza, negando ed evitando la necessaria contaminazione fra sapere e fare. Un capolavoro di grave iniquità sociale e ottusa miopia politica, con la conseguenza che ora - nella società della conoscenza - tutto ciò ci colloca ai margini della giustizia sociale e contemporaneamente fuori dal mondo più evoluto e produttivo. Non è proprio così che si esprime la vera sostanza del classismo, dell'iniquità sociale, e - oggi - del generale danno economico?
Proprio a questo si deve se nella scuola è stato cancellato il metodo scientifico-sperimentale, per cui le leggi fisiche si imparano sulla carta, si giunge subito alle astrazioni, non vi è spazio per esperienze e osservazioni che impegnino personalmente l'alunno e lo stimolino a costruire il suo risultato conoscitivo. Come diceva Hegel e ricordava Oppenheimer, è come pretendere di insegnare a nuotare fuori dall'acqua. In Italia ci si può diplomare senza aver mai visto un laboratorio scientifico né aver superato un esame di laboratorio, cosa inimmaginabile in paesi evoluti. Nel nostro metodo didattico non si vuol sollecitare la curiosità scientifica, la meraviglia di una scoperta. Più che altrove da noi calano pericolosamente gli iscritti agli istituti tecnici come ai corsi delle lauree scientifiche: siamo in coda nelle classifiche internazionali. Dobbiamo ammettere malinconicamente che in Italia la scienza e la tecnologia non sono considerate cultura. Abbiamo cancellato anche Leonardo e Galileo. Siamo di fronte a una vera e propria emergenza scientifico-tecnologica.
L'altra grande carenza del nostro impianto educativo puramente gnoseologico è l'assenza di ogni stimolo alla creatività, alla espressività artistica di ogni alunno. Nella scuola italiana manca l'arte, la sollecitazione delle pulsioni artistiche che sono in ognuno di noi. Ad esempio, la musica praticata, la possibilità di imparare a suonare o cantare, e quindi la grande gioia che essa genera, oltre al severo impegno e rigore gioioso che fare musica richiede, non hanno cittadinanza, non sono considerate cultura né se ne apprezza l'indubbia valenza formativa. In tutti gli stati evoluti si insegna la musica a scuola fin dall'infanzia, in Italia no: che male abbiamo fatto per meritarci questo?
Dewey, Bruner, Gardner, e tanti altri, i cognitivisti, le neuroscienze hanno dimostrato in mille modi che il processo di apprendimento richiede il concorso dell'intelligenza razionale e di quella emotiva, che pensiero riflessivo e creatività vanno di pari passo, che occorre costante interazione tra sapere e fare. Da noi i tardo gentiliani, forse inconsapevolmente, continuano a predicare la contrapposizione fra segmenti e bastoncini, si esercitano nel dividere l'emisfero celebrale sinistro da quello destro. Descrivono visioni apocalittiche di nuove generazioni ignoranti, violente, distratte, svogliate, rivelando in tal modo di non sapere nulla delle profonde novità presenti nella cultura giovanile attuale, dei nuovi interessi, delle abilità cognitive moderne, del loro pensiero spaziale espresso in segni e immagini, peraltro a noi ignoto, dei codici linguistici non verbali ( i numeri, le note, le immagini), di cui esse sentono bisogno per interpretare e cogliere la complessità delle nuove conoscenze.
Il mondo, oggi, il globo vero e proprio entra nelle nostre vecchie aule, fra i banchi antichi. Esso sconvolge e cambia così la comunità educante. Esige più creatività, tracciati meno rigidi e convenzionali: cioè libertà, libertà vera di essere se stessi. Parla più lingue insieme. E' fatto di volti con tanti colori, naviga in internet e può dialogare, persino studiare con amici lontani, non solo con il compagno di banco. Abbiamo dato spazio a tutto questo con l'autonomia scolastica, apprestato la cornice istituzionale della creatività, della libertà di apprendere nelle differenze, della fine della gerarchia fra i saperi. E si è persino avuto paura che essa contaminasse, lasciasse soli gli insegnanti. Ma è l'autonomia che apre la scuola non più solo alla trasmissione dall'alto, ma alla ricerca didattica, a diffondere ma anche a creare sapere, a modellare la scuola sugli alunni e non viceversa, che vuol dire che l'insegnamento può non venire solo dall'alto, ma può e deve adattarsi ai diversi.
Perché i tanti sono inevitabilmente diversi, con diverse attitudini, e vocazioni, e interessi. Molti devono essere sostenuti per la loro difficoltà, perché il proprio viaggio educativo può essere troppo difficile, possono mancare le condizioni, ci si può sentire in affanno - ed è questo il senso dell'equità, non lasciare nessuno indietro, «non uno di meno». Evviva don Milani! E poi ci sono i talenti da sostenere, cui non si può infliggere un ritmo e una routine che mortificano le loro potenzialità, scoraggiano il loro impegno: anche questo sarebbe iniquo. L'uguaglianza è il regno delle differenze e delle pari opportunità, è quello che da tempo chiamo il Diritto al Successo Educativo per tutti, a seconda dei vari bisogni e delle varie potenzialità ed impegno.
Certo, se c'è più autonomia e libertà, si devono valutare i risultati, i successi di una scuola, di una classe, di un gruppo; ciò che resta dell'apprendimento, nel tempo, l'efficacia dei metodi e delle scelte adottate. So bene che questa è una scuola ben più difficile di quella basata sulle lezioni frontali e sull'insegnamento deduttivistico e solo gnoseologico. Ma si può considerare compito facile fare apprendere tutti, e tanto, e bene? Conciliare equità socio-culturale e qualità? Un tempo si sarebbe detto: ma questa è un'utopia. Si, è un'utopia, di quelle che si possono realizzare però, di quelle che talvolta i rivoluzionari si sono impegnati a realizzare. Quel che so è che non c'è altra via: o si abbassa la qualità per la massa, o si abbassa la massa (escludendo) per la qualità. La via che propongo è obbligata: bisogna volerla perseguire, liberandosi del vecchio armamentario educativo, e sapendo che è una via non breve. Ma è necessaria.


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