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Manifesto: Scuola: cerchiamo ancora. Gli eterni rimossi della formazione scolastica italiana

Una «replica» al dibattito sullo stato e sugli orizzonti della nostra scuola. Per privilegiare i contenuti sull'architettura ordinamentale, e spingere sull'autonomia intesa come permanente ricerca didattica Luigi Berlinguer

12/09/2007
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il manifesto

Il manifesto ha aperto un dibattito sulla scuola che non ho visto svolgersi in altra sede. Sia pure con un alto tasso di polemica e di scontro, si sono riaffrontati temi aperti da tempo. Devo ringraziare il giornale e gli interlocutori per questo risultato.
Le posizioni sono state diverse, il quadro emerso è eterogeneo. E' la scuola italiana. In essa c'è tanta amarezza, ma ci sono anche tantissimi docenti che fanno volentieri il loro mestiere; e questa volta hanno parlato anche loro, non solo i contrari.
Non è mancata la voce che giudica la crisi scolastica irreversibile, con un solo responsabile (ahimè), e datando il fenomeno in questi ultimi dieci anni. Scordando che già dieci anni fa (e venti, e trenta anni fa) si parlava di caduta della qualità, di bignamizzazione, di inutile enciclopedismo, e già allora si datava il fenomeno svariati anni prima. Deliziosa e illuminante la citazione nell'intervento di Palma e Maraschini di un episodio del 1875, di quel Liceo in cui gli studenti «abbronzarono giù in basso i calzoni» al Professor Giani, e taluni docenti pontificavano anche allora che «ora la gioventù è inclinevole a seguire più le seduzioni della natura e dei sentimenti». Persino contro Gutenberg ci furono reazioni contrarie imputando al libro stampato un degrado della qualità della cultura rispetto al manoscritto. Si dicono sempre le stesse cose, ma così va il mondo, si sa.
Mi si perdoni questa -forse un po' piccata - precisazione, almeno sulla data di inizio del «degrado» della scuola e dei suoi responsabili. Penso comunque che in questo dibattito ciò che interessa sia altro. Interessa come si va avanti , come anche altri proseguiranno nelle analisi e nell'elaborazione. Interessa proseguire laicamente, escludendo però alcune forzature interpretative malevole, esatto contrario delle mie posizioni. Alludo a quella che mi attribuisce di volere «abbassare la qualità a favore della massa», a quella che mi presenta come persona ostile ad astrazione e concettualizzazione, o che mi rende responsabile del «lusso che giovani superino la maturità classica ignorando qualunque nozione di storia del Novecento», quando si sa che sono invece io il «colpevole» all'opposto di aver dato piena dignità culturale e scolastica a quel secolo al pari di tutti gli altri periodi storici. Ma, ripeto, il senso della nostra discussione oggi è un altro. Che fare?
I nuovi studenti
Credo che si debba inevitabilmente partire da un dato: oggi gli alunni delle scuole italiane sono più di otto milioni e mezzo. Nella secondaria superiore sono 2.691.713, nel 1951 erano 416.000: sono cresciuti di quasi sette volte. Cesare Grazioli ha obiettato se sia possibile «fare a scuola le stesse cose e con gli stessi metodi di 30 o di 50 anni fa». E io aggiungo: con un numero di studenti circa sette volte superiore, con una composizione sociale e culturale del corpo studentesco radicalmente mutata.
Ecco il concetto: la quantità può essere un dato irrilevante rispetto alla natura dell'attività educativa? Non produce alcun cambiamento nel suo impianto? L'aumento (in crescita) della quantità non richiede misure educative diverse? Ad esempio, è vero che se non ci si adegua si rischia di creare canali paralleli, culturalmente e socialmente ghettizzanti, di diversa qualità e non solo tipologia? Se questi numeri non fossero veri, se la spinta sociale all'espansione scolastica fosse solo demagogia, allora si risponda con analisi e argomenti alternativi, purché documentati, e non con generiche invettive. E si proponga un'alternativa, equa e insieme di qualità. Ricordando però che lo sviluppo di massa - anche a non volerlo - è oggi in tutto il mondo un fenomeno inarrestabile, da governare e qualificare. E' la società della conoscenza, dei diritti, è il welfare.
C'è un'altra antinomia da affrontare: si polemizza con la modernizzazione, perché essa significherebbe cancellare i classici. L'Eneide si leggeva manoscritta, un tempo, e poi stampata, e poi in un file al computer. Sempre Eneide era ed è. Solo che manoscritta la leggevano in pochi, pochissimi. Il poema di Omero - il capolavoro dei capolavori - si leggeva in greco, oggi in tutte le lingue del mondo. Modernizzare significa forse cancellare Omero, e non invece farlo leggere a tutti? Taluni in greco, milioni di cittadini nella propria lingua. Io ho preteso che a scuola si studiasse il '900, ma che anche la classicità fosse conosciuta da tutti, con pari dignità. Prima il '900 era escluso. Luciano Canfora parla di «guasto irrimediabile della scuola di massa», e mi attribuisce la volontà di cancellare l'antichità. Ma non è in grado di citare un solo dato concreto a suffragio della sua tesi, ideologica e puramente orecchiata. Detto questo, però, va posto in evidenza un altro aspetto: la modernizzazione riguarda solo secondariamente il contenuto, perchè investe soprattutto la funzione e la natura dell'education, il suo metodo. Di questo i nostalgici non sanno nulla, non hanno studiato le acquisizioni della scienza cognitiva, delle neuro scienze, di un'epistemologia moderna. Non scrutano l'universo culturale giovanile, le sue nuove abilità cognitive, il pensiero che si muove per immagini, l'intelligenza spaziale, che noi non abbiamo e i giovani hanno.
L'atteggiamento professionistico di costoro è sconfortante. Considerano questo profilo volgari banalità pedagogiche, vantano una professionalità (educante) fondata sulla pura competenza disciplinare, e chiamano l'esempio del medico che non sa curare o dell'ingegnere che fa crollare i suoi ponti. Che vuol dire? Nella professionalità educante si compongono conoscenza disciplinare e competenza relazionale, ma soprattutto attenzione al destinatario, alla sua base culturale contestuale, alla sua capacità ricettiva. La differenza è fra il docente colto e il docente professionista colto. A scuola serve quest'ultimo, vero professionista competente in campo disciplinare e relazionale. La professionalità è oggi cosa assai più complessa di ieri, più difficile, più faticosa, specie in una scuola così cambiata.
Didattica vecchia
C'è chi ha studiato queste cose. Ci sono dati, ricerche, una letteratura scientifica e documentaria assai rilevante. Se non piace Dewey o Bruner, si vadano a vedere Montessori o Loris Malaguzzi, ad esempio, o Banfi o De Bartolomeis, figli questi ultimi del liceo classico. Oppure ci si rivolga alle migliaia di docenti italiani, colti, elementari o liceali, che questi concetti applicano con successo, amano il loro mestiere, hanno letto quei testi e studiato il fenomeno.
Sempre esaminando i necessari cambiamenti, propongo un altro profilo: nella scuola secondaria (le elementari hanno da tempo superato questa eredità) si può ancora accettare che la lezione ex cattedra, frontale, e l'interrogazione siano il metodo educativo migliore? Che lo studente sia «appiattito nella dimensione dell'ascolto»? E' un metodo naturalmente solo trasmissivo e quindi autoritario; ma è diventato soprattutto inefficace. Sarà bene che si studino gli effetti dell'insegnamento frontale, gli esiti, esaminandolo per singole discipline. Si può imparare «frontalmente» una lingua straniera? O la fisica sperimentale, o la matematica? O a suonare uno strumento? Solo per fare alcuni esempi.
La lezione frontale non è una prescrizione divina o un dato fisiologicamente connaturato all'insegnamento. E' una scelta (in qualche caso anche comoda), che oggi va valutata nella situazione data. Ad esempio: una classe culturalmente eterogenea può imparare proficuamente, in tutte le sue componenti, con quel metodo? C'è chi ha cambiato. Male? E' sciocco e inutile guardarsi intorno? O siamo italicamente autosufficienti?
Nel dibattito sul manifesto qualcuno ha parlato di «sapere utile». E' una bestemmia? Viola un tabu'? E il «sapere disinteressato», fur evig è proprio totalmente inconciliabile con il sapere utile? Un bel tema, una delle «tanto aborrite concettualizzazioni» che mi si incolpa di rifiutare. Un tema risolutivo, che a taluni non piace. Forse considerano costoro anche Delors un pedagogista da strapazzo? Eppure il suo libro verde è un riferimento per tanti nel mondo. Sapere utile non cancella la teoria: ne verifica il presupposto fattuale. E' dall'incontro fra la «percettibilità» (la capacità di risposta agli interrogativi di senso e a ciò che ciascuno sente proprio, dentro la sua «cultura») e l'affascinante e spinoso viaggio nei concetti e nelle astrazioni (non nell'inutile astrattezza) che l'alunno viene coinvolto, scopre, si emoziona, costruisce il suo sapere.
Mi pare che risieda in questo intento il presupposto, forse il miracolo di coniugare qualità e quantità: non solo piatta empiria né solo preventiva astrattezza. Ciò vale per tutti: per chi è capace di correre, volare, per chi è un vero talento (che deve poter arrivare prima, sostenuto nella sua capacità); e chi invece ha bisogno di «studiare con lentezza», di «lasciare il pensiero libero alla sua corrente», come alcuni studenti hanno chiesto a un mio interlocutore (che li ha colti nel fallo di un «comune sentire con questo riformatore inesausto» che scrive, poveretti). Ma la scuola eterogena di oggi ha necessariamente più velocità, assai più che nel passato. Se ne prenda atto.
«Qualità ed equità non sono grandezze inversamente proporzionali», è stato scritto sul manifesto. Bello. Dobbiamo lavorare per realizzare questa affascinante ambizione. Questa utopia. Anche perché i due termini sono al contrario sostanzialmente complementari. Se infatti una education di massa scade nella qualità, ridiventa iniqua perché offre alla massa un prodotto dequalificato. E, secondariamente, perché nella stessa scuola di massa si creano percorsi culturalmente e istituzionalmente discriminatori nella sostanza. In fondo, lo sviluppo di massa ha una sua spinta sociale propulsiva propria, è fenomeno mondiale in atto. E' quindi soprattutto sulla qualità che occorre spingere: qualità buona per tutti. Al di là delle polemiche e di qualche improperio, sono sicuro che tutti gli interlocutori del manifesto sono d'accordo che l'education debba essere di qualità, e che nessuno vorrebbe che una parte restasse fuori dal diritto all'istruzione. Fatta eccezione per Piero Citati, educatore di complemento, che ha elaborato un'acuta dottrina pedagogica, da lui icasticamente scolpita sulla Repubblica dell'8 giugno 2004: coloro che non ce la fanno, «possono fare i falegnami, gli idraulici, gli elettricisti, professioni nobilissime, difficilissime» (sic).
In conclusione: cioè riaprendo
Avanzo qui due proposte di nuova politica scolastica: privilegiare i contenuti sull'architettura ordinamentale, e spingere sull'autonomia intesa come permanente ricerca didattica. Nei contenuti bisogna applicare il metodo scientifico sperimentale, l'empirico e il teorico devono procedere insieme, così come osservazioni dei fenomeni e costruzione delle strutture razionali del pensiero. Partendo da ciò che si vede e si sente e costruendo il sapere generale. L'occhio della fronte e l'occhio della mente di Galileo. «Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu» (Tommaso d'Aquino). Discutiamo. Sento comunque che il metodo scientifico deve informare di sé l'intera scuola. So bene che il cambiamento è profondo. Come e chi deve fare questo? Non l'azione ministeriale, che deve solo disegnare il quadro nazionale, ma le scuole autonome. Non in una micro-progettualità di iniziative «extrascolastiche», non aumentando ma riqualificando l'offerta formativa, con la ricerca sulla didattica disciplinare, il monitoraggio permanente. In una parola, i docenti singoli e in équipes. Se sono i contenuti e i metodi ad avere la prevalenza politica, inevitabilmente cresce il ruolo dei docenti. Perché insegnare spetta ai docenti, non alla politica.
Ho riflettuto in questi anni su quella stagione di riforme di fine anni '90, ai suoi meriti, agli errori, alle ingenuità, e per converso alle rapide novità in atto nella società mondiale. Spero mi si voglia concedere che una tale impostazione non si àncora nostalgicamente al trionfalismo, ma a una mia volontà di rimettere in discussione esperienze, analisi, proposte. Anche il nostro dibattito ci aiuta a guardare avanti. Personalmente sono grato al manifesto e a tutti gli interlocutori di questa discussione.


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