Manifesto: Rullo compressore sulla scuola statale
Marina Boscaino
L'autunno caldo della scuola italiana si è apparentemente stemperato nella pubblicazione delle due bozze di regolamenti attuativi licenziati dal Consiglio dei ministri il 18 dicembre e rese pubbliche il 22, durante le vacanze: colpo di teatro di prevedibile pessimo gusto; «dichiarazione di guerra» a chi - studenti, insegnanti, genitori - ha manifestato con modalità civili e democratiche dissenso sulla distruzione programmatica della scuola pubblica; ostentazione di insensibilità a ogni forma di ascolto per chi a scuola va quotidianamente e disprezzo delle ragioni di una circostanziata e consapevole opposizione al disinvestimento economico e culturale perseguito dal governo; incuria nei confronti di lavoratori che hanno scioperato in qualche caso persino in 3 occasioni diverse (17 ottobre, sindacalismo di base; 30 ottobre, confederali e altre sigle della scuola; 12 dicembre, Cgil e sindacalismo di base); dileggio degli studenti che, contro ogni aspettativa, hanno dimostrato voglia di partecipare, sensibilità nei confronti della cosa pubblica, senso di responsabilità. Non ha provato nemmeno - la destra - a simulare una parvenza di argomentazione per giustificare l'operazione di smantellamento della scuola statale, se non evocando tagli a sprechi mai dimostrati, logiche di sacrificio che dovrebbero toccare ben altri settori; e trovando la propria sponda nella necessità di ordine e certezze che una parte del paese reclama a gran voce e che ha portato - insieme a grembiulino, voto in condotta, progetto dell'educazione civica come pedagogia di stato, ripristino delle indicazioni nazionali della Moratti, caccia al fannullone, purga dei precari e altro ancora - alle impronte ai bambini rom, alle ronde nei quartieri, alle classi ponte. Provvedimenti muscolari e interventisti che, tacitando timori e attenuando paure, restituiscono sicurezze fittizie ma consolatorie a una società civile per molti tratti priva di riferimenti.
Gli insegnanti, gli studenti, i genitori che si sono mobilitati durante l'autunno, quelli i punti di riferimento ce li hanno: primo tra tutti la Costituzione. Violata, elusa, reinterpretata in molti suoi aspetti dal trattamento senza precedenti riservato da questo governo alla scuola. A Roma il 17 gennaio il convegno nazionale di Per la Scuola della Repubblica tratterà proprio questo argomento. Alla Carta continueranno a ispirarsi le numerose iniziative previste in molte città italiane per la ripresa dell'anno: per avere una concreta speranza che la mobilitazione non sia esaurita basta fare un giro nell'unico spazio di democrazia reale per il nostro paese, il web, e consultare Retescuole, i coordinamenti di Roma e Firenze, l'Assemblea delle scuole di Bologna e provincia, solo per fare qualche esempio. Ma ci sono due insidie a cui far fronte. La prima: l'idea che la battaglia sia definitivamente persa. A questo proposito, se è vero che le procedure adottate dall'esecutivo sottraggono definitivamente la materia dei regolamenti a ogni possibilità di dibattito, la strategia del divide et impera, tipica dei governi di centro destra, ha trovato un enorme ostacolo proprio nella sinergia delle componenti della scuola. Si spiegano così, peraltro, sia la logica pedestre di una «riforma» della scuola e di un taglieggio di risorse fatte a tempo di record, sia la mossa a sorpresa di fine dicembre. Lo stizzito ricorso al peggiore degli insulti (il Grande Capo docet) - comunista! - è stato più frequente che mai. La colpa è sempre di qualcuno che «muove i fili»; chi non fa parte della maggioranza silenziosa è eterodiretto: il comune obiettivo del bene della scuola pubblica e la conseguente alleanza tra insegnanti, studenti e genitori rappresentano, insomma, un vero e proprio intralcio e un'insidia per chi per primo a quell'istituzione non assegna alcun valore. Forse perché costituzionalmente ancora vocata all'elaborazione di cittadinanza critica. Non a caso il grottesco sport della stampa di regime è stato dimostrare l'inconsapevolezza dei ragazzi, tentando di rianimare fantasmi del '68. Che il movimento degli studenti sia una montatura guidata dai «comunisti» è stata la tesi principale de Il Giornale: dopo il 17 ottobre, ha collezionato una serie di dichiarazioni da parte degli studenti che suonavano più o meno: «Sciopero perché è venerdì e posso fare 3 giorni a casa»; persino dopo la manifestazione del Pd - a che punto può arrivare la paranoia! - titolava: «Nei cortei rischio infiltrazioni Br, noti estremisti dietro gli studenti». Meloni, ministro della Gioventù: «Ho l'impressione che il movimento studentesco si stia facendo trascinare dai docenti e dalle strutture di riferimento, che sono partiti e sindacato».
Un altro elemento su cui sarà bene riflettere è l'effettiva coesione del mondo della scuola, opinione sempre più astratta dalla realtà. Partecipazione e reazione sono nate, negli ultimi decenni, dal contatto diretto con situazioni di emergenza: l'assenza quasi totale degli insegnanti della secondaria in queste occasioni ne è stata la prova. Atteggiamento pericoloso, che configura un'idea di scuola come sistema settoriale, scollato da qualunque idea di verticalità e di organicità, sia dal punto di vista didattico che della cura dello sviluppo dell'emancipazione degli individui che sono e saranno gli studenti; marca poi una vistosa lontananza tra ordini di scuola che - attraverso dialogo, coesione, solidarietà - connoterebbero il «mondo della scuola» come interlocutore non solo nominale: più forte, perché compatto, sinergico nella rivendicazione della propria funzione intellettuale, culturale, educativa; capace di elaborare idee e resistenza.
Un attacco alla scuola statale, a qualunque ordine di scuola, rappresenta un vulnus per la democrazia del paese, per la libertà, per le pari opportunità. Tale messaggio può e deve diventare patrimonio condiviso di quella parte della società civile che crede nel mandato costituzionale della scuola dello stato. Solo una classe docente realmente coesa può riattivare la partecipazione e il protagonismo di ragazzi che si sono avvicinati alla politica per la prima volta, vedendo scavalcare le loro proteste a colpi di decreto legge.
La verità è venuta fuori nel modo più infido e violento: a scuole chiuse. A riprova dell'inattendibilità dell'indignazione con la quale - strumentalmente - la triade Tremonti-Gelmini-Brunetta aveva risposto alle proteste. Innanzitutto la distruzione ideologica della scuola primaria: soppressione di tutte le compresenze, ritorno al maestro unico, dotazione dell'organico definita sulla base delle 27 ore settimanali; riduzione del numero di scuole e classi; tagli previsti dalla legge 133/08 (1 miliardo di euro per il solo 2009/10); riconferma di tutti i punti contro cui si è battuto il movimento. Il consiglio dei ministri ha sottomano i due schemi di regolamento relativi al riordino di licei e tecnici. Il disegno di legge Aprea apre la strada alla scuola come ente privato, ai consigli di amministrazione, agli sponsor, a un sistema di reclutamento e di carriera interna curiosamente simile proprio a quello che il governo ha ostentato di voler sbaragliare nelle università.