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Manifesto: Per conoscenza, dai campus alle officine

L'ethos dell'autonomia accademica serve alle università per garantirsi l'accesso all'intelletto comune e poi trasformarlo in business

13/06/2006
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il manifesto

Intervista. Le università statunitensi brevettano i risultati delle ricerche e vendono sapere al mercato della formazione a distanza. Parla lo studioso Andrew Ross I lavoratori della conoscenza sono molto infedeli e insensibili alle richieste di sacrifici del management. Lo sono nelle società high-tech, ma anche nei laboratori disseminati nelle regioni speciali della Cina

Gigi Roggiero

Quando, la mattina dell'11 settembre, due aerei si sono schiantati sulle Twin Towers, a qualche isolato di distanza i lavoratori della Razorfish aspettavano da tempo un crollo. Non quello delle mitiche torri, ma della loro azienda - sopravvissuta al tracollo dell'indice Nasdaq - e con essa delle loro aspettative di auto-imprenditoria e felicità con il lavoro. Sotto i loro piedi si è spalancato il ground zero della precarietà. Quelli della Razorfish sono tra i knowledge workers intervistati da Andrew Ross nel volume No-Collar: «Sognando un'attività all'altezza dei loro desideri, estro e capacità, hanno ben presto dovuto fare i conti - si può leggere nel volume - con "l'industrializzazione della Bohemia"».
Studioso eterodosso, Andrew Ross ha pubblicato molti saggi e ricerca al fenomeno della cosiddetta «società della conoscenza» che hanno avuto una esemplificazione nella ricerca lavoratori della new economy nella Silicon Alley - il distretto tecnologico di New York - pubblicata proprio in No-Collar. The Humane Workplace and Its Hidden Costs (Basic Books, New York). Ma quella raccontata in questo libro non è una storia americana, bensì globale, come Ross dimostra nella ricerca sull' outsourcing e i lavoratori della conoscenza in Cina, raccolta in Fast Boat to China : Corporate Flight and the Consequences of Free Trade; Lessons from Shanghai (Pantheon Books, New York). La tesi di fondo di Ross è che la precarietà nella knowledge society può essere interpretata come la risposta capitalistica alla fuga dal lavoro salariato, al desiderio di autonomia e creatività, alle lotte e alle pratiche del lavoro vivo degli ultimi decenni. Una tesi stridente con quanto sentenzia invece la cultura accademica dominante. Infatti, se si scorrono gli elenchi dei titoli di libri statunitensi dedicati ai «lavoratori della conoscenza» si rimane stupiti in primo luogo per il loro numero e per l'enfasi che viene posta sulle possibilità liberatorie dei «lavori della conoscenza».
L'università è per certi versi paradigmatica nell'analisi della messa al lavoro dei saperi e della crescente porosità dei confini tra vita e lavoro. L'intervista con Andrew Ross Ross non può allora che cominciare da qui.
Da alcuni anni anche negli Stati Uniti si parla sempre più frequentemente della perdita di autonomia delle università nei confronti delle imprese. Eppure, in Europa è luogo comune sullo stretto legame tra finanziamenti privati e sistema universitario.....
Per indagare le trasformazioni del sistema accademico bisogna risalire al «Bay-Dohle Act» del 1980, che ha rafforzato il legame tra università e industrie consolidando il ruolo della proprietà intellettuale. Con l'obiettivo di promuovere l'innovazione delle imprese americane nell'accresciuta competizione internazionale, la continua diminuzione dei fondi pubblici ha comportato una progressiva trasformazione delle università scientifiche ma anche per le humanities in vere e proprie imprese con la conseguente e crescente dipendenza dalla partnership con le industrie. Le cosiddette scienze applicate puntano infatti sempre più al trasferimento di tecnologia perché i fondi sono legati agli investimenti in start-up e alla proprietà intellettuale. Per esempio, le università americane possiedono la maggior parte dei brevetti sulle sequenze del Dna, mentre gli scienziati spesso siedono nei consigli di amministrazione delle corporation. Le istituzioni non-profit sono così diventate for-profit e la ricerca universitaria un appendice dell'industria privata. Al contempo, c'è stata una «mercatizzazione» delle politiche di assunzione, una centralizzazione del potere nelle mani dell'amministrazione, l'erosione nella governance accademica del ruolo dei docenti, che hanno assunto un profilo da stakeholder, diventando più «inquilini» che «proprietari» dell'università.
Il lavoro accademico è tuttavia caratterizzato da una tensione che è al cuore del capitalismo della conoscenza. L'università sempre trasmette conoscenza al mercato, ma deve al contempo mantenere la funzione di «garante della verità». Senza i beni comuni del sapere e della informazione da utilizzare liberamente, il knowledge capitalism perderebbe i suoi principali mezzi di lungo termine per ridurre i costi di transazione. Se tutta la conoscenza fosse privatizzata, dal canto loro i docenti-imprenditori perderebbero autonomia e status di proprietari del sapere. Quindi, il tradizionale ethos accademico della ricerca disinteressata serve non solo a preservare il prestigio simbolico dell'istituzione, ma anche a salvaguardare le risorse disponibili in quanto liberi input economici, così come le industrie manifatturiere, estrattive e biomediche dipendono dalle comuni risorse ecologiche.
La precarizzazione della forza-lavoro accademica è cresciuta in sintonia con il trend generale e con il processo di aziendalizzazione dell'università. Alla New York University abbiamo una declinazione particolare di questo processo: l'università è molto imprenditoriale, strategicamente collocata nella zona centrale di una metropoli globale e ha campus in giro per il mondo, emulando le corporation nei modelli di outsourcing. La nascita di un movimento sindacale tra i graduate students nel settore privato è dovuta sopratutto alla crescente percezione di un'attività precaria come quella dei graduates, che svolgono gran parte del «lavoro» universiatario di base, dagli esami al tutor, e, come dite voi in Italia, dalla perdita di valore del titolo di studio per cui il Ph.D. è probabilmente il punto finale e non l'inizio della carriera. Il tentativo della New York University - sostenuto da ex membri dell'amministrazione Clinton - di schiacciare il sindacato Gsoc nato nel campus rappresenta un punto di svolta nella corporate university.
L'attenzione dei media nei confronti delle mobilitazioni in corso dei graduates dipende dal fatto che New York è una union town. Inoltre lo «United Auto Workers» (di cui fa parte il Gscoc) è uno dei sindacati più potenti, con un miliardo di dollari di fondi per gli scioperi.
L'amministrazione della New York University rifiuta di riconoscere i graduates come lavoratori anche nel nome della libertà accademica e intellettuale, ambiguo mito liberal...
Ufficialmente il consiglio di amministrazione afferma, con scarso successo, che il sindacato sta mettendo in discussione il privilegio dell'amministrazione nella governance degli affari accademici. La questione della libertà accademica è più interessante, perché è un culto liberal, basti pensare al fatto che il sostegno alla mobilitazione di alcuni docenti è venuto meno perché hanno creduto che appoggiando i graduates significasse comprometterla.
Le mobilitazione alla New York University sono state definite come rivendicazioni «bread-and-butter», per il pane e il burro. Non credi che corrano però il rischio di eludere questioni politicamente centrali come la critica dei saperi, i modelli formativi o la proprietà intellettuale...
Sono d'accordo, un sindacato deve avere un ruolo intellettualmente attivo nella società. Il social unionism degli anni '30 aveva ampi scopi politici ed è stato sradicato dal business unionism, che è il patto tra capitale e lavoro, ancora vigente oggi. L'attività sindacale è stata ridotta alle rivendicazioni su salari e orari. Purtroppo l'eredità della «rivolta contro il lavoro» degli anni '70 è molto debole: in una società dove le 12 ore di lavoro al giorno stanno tornando alla ribalta e la precarizzazione cresce velocemente, c'è ancora la nostalgica utopia di un impiego sicuro. Inoltre, l'etica del lavoro americana rende difficile sganciare il reddito dal lavoro, si pensi alle politiche di workfare.
Lei ha spesso evidenziato il rischio di un'eccessiva generalizzazione della categoria di knowledge workers. Assumendola con cautela, ci sono particolari forme di lotta e resistenza dei lavoratori della conoscenza?
Nella ricerca etnografica sui knowledge workers in Cina noto che non sono molto differenti da quelli che ho intervistato in No-Collar. Hanno la stessa mentalità in tutto il mondo, e la maggior parte sono guidati da interessi individuali. Si può trovare la resistenza ovunque se la si cerca, ma temo non nelle forme che alcuni teorici italiani sperano.
Quegli stessi interessi individuali, tuttavia, fanno parte della costituzione materiale della soggettività del lavoro vivo contemporaneo, con le sue ambivalenze e contraddizioni. Quali possono essere allora nuove forme di conflitto?
Non sono pensabili in una prospettiva limitata al posto di lavoro, come dimostrano i movimenti per un'altra globalizzazione. Gli attivisti hanno spesso relazioni con l'industria della conoscenza, ma è difficile dire ciò che è tempo di lavoro o tempo libero. Ovunque si spende sempre più tempo con e-mail o blog, molta dell'attività politica è fatta da persone con alte capacità, che allungano la giornata lavorativa per includervi qualcosa di significativo. Ma non lo fanno in quanto knowledge workers, bensì come lavoratori con accesso alle tecnologie e il tempo per l'attività organizzativa.
Nel suo ultimo libro scrive che la mobilità globale goduta dal capitale sta creando, come in uno specchio, una forza-lavoro che rimane fedele alle imprese. Flessibilità, mobilità e infedeltà possono dunque rovesciarsi, diventando risorse del lavoro vivo contro il capitale?
Spesso tendiamo a dimenticare che ai padroni piace un alto livello di fedeltà dei lavoratori. Una forza-lavoro intermittente può essere utile ad alcuni investitori fly-by-night, ma è un tormento per la maggior parte dei padroni che la vogliono stabile nei loro termini. In Cina ho trovato questa sorta di slealtà ovunque: nessuno si aspetta che l'attuale padrone lo sia per tempi lunghi, i lavoratori hanno visto multinazionali andare e venire e stanno semplicemente contraccambiando. Questa slealtà è l'altra faccia del lavoro precario: non è certo la flessibilità che i manager vorrebbero vedere. Si prenda la Coppa del Mondo: per un mese centinaia di milioni di lavoratori non si faranno vedere al lavoro, è una situazione che i padroni sono costretti ad accettare. Questo trasferimento di lealtà dalle imprese alle nazionali di calcio o al «bel gioco» è diventata una rivendicazione legittima. Mi ricorda la tradizione del «Santo Lunedì» del XIX secolo, quando i lavoratori industriali hanno continuato ad affermare il diritto pre-industriale ad assentarsi i lunedì (e molti anche i venerdì), nella secolare emulazione delle feste religiose.
Nel venir meno dei confini tra lavoro e vitaextralavorativa qual è l'impatto delle nuove tecnologie sul sistema universitario?
L'alta tecnologia ha avuto più impatto nei posti di lavoro aziendali che nelle accademie, dove i confini sono sempre stati indistinti e la maggior parte dei docenti e dei ricercatori non sa quando è al lavoro oppure no: se guardi la televisione, ad esempio, analizzi e produci ricerca. È un doppio processo: il termine corporate university descrive esclusivamente l'assorbimento dell'università nella cultura di impresa, senza cogliere quanto la mentalità del lavoro accademico si stia travasando e stia diventando prevalente nel lavoro aziendale. Intorno al 2000 le università sono entrate nel business della formazione a distanza, perdendo molti soldi. Contemporaneamente c'è stata la crescita delle università for-profit, in cui le tecnologie sono molto sfruttate e che usano esclusivamente lavoro precario. I docenti full-time di altre università non hanno preso parola per criticare la crescita di questo settore perché in generale pensano solo al loro interesse, hanno una mentalità corporativa.


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