Manifesto: «Obbligatorio l'uso del friulano» Fa discutere la proposta del Prc
La Regione Friuli si appresta a votare una legge che introduce il dialetto in scuole, strade e negli enti pubblici. Molte proteste: non siamo uno stato etnico
Francesca Longo
Trieste
Basterebbe un comunicato stampa della presidenza del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia per capire come la proposta di applicazione della legge 482/99 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche avanzata dall'assessore alla cultura Roberto Antonaz, Prc, e appoggiata dal presidente Riccardo Illy, sia anacronistica. Certo di fare cosa gradita ai parroci di 500 pievi regionali, il presidente del consiglio regionale, Alessandro Tesini (Pd), ha inviato tre libri in lingua friulana («Nuovo testamento», «Storie sacre» e «Passione») accompagnati da una lettera in «marilenghe» (friulano). Peccato che, almeno nel comunicato, non comparisse uno dei tanti accenti - circonflessi in primis, indi gravi e acuti - che caratterizzano la koinè di questa lingua ladina, parlata - soprattutto in ambito familiare - da 600.000 persone. Sarebbe questione di lana caprina, non fosse che la prossima settimana la Regione s'appresta a varare una legge che prevede l'obbligatorietà del friulano nelle scuole, l'uso negli enti pubblici, nella toponomastica ecc. Sei milioni di euro pubblici verrebbero versati da una Regione che non ha ancora nemmeno una tastiera di computer idonea alla bisogna e che al limite può basarsi sulla buona volontà dell'impiegato ad utilizzare la «mappa caratteri» di Windows col copia e incolla. Figuriamoci cosa potrebbe succedere quando, mappati tutti i comuni che partecipano, saranno istituzionalizzati i confini della nuova «nazione».
Un passo indietro: trent'anni fa la componente autonomista del Pci friulano propose l'obbligatorietà del friulano nelle scuole. Enrico Berlinguer si rifiutò di tenere il comizio elettorale a Udine, Tullio De Mauro tentò l'impossibile per riportare la federazione su binari scientificamente accettabili. Nessuna preclusione per le lingue minoritarie, anzi tutela e valorizzazione, ma in prospettiva futura. In Friuli il clero, supportato da autonomisti laici, si batteva per la conservazione, tanto più che un terremoto (e soprattutto i soldi a pioggia che ne sono derivati) aveva stravolto il tranquillo assetto di una terra che tranquilla non è mai stata. La lingua diventò bandiera. Oggi la Lega nord ritiene che dovrebbe essere il veicolo d'insegnamento di ogni disciplina. La destra difende l'italiano con gli stessi mezzi usati nel ventennio (quando parlare friulano era vietato - eppure il friulano è sopravvissuto benissimo anche senza le scuole!). Il centro(blob)sinistra è spaccato. E lì la polemica è più che accesa.
A farsene portavoce è Alessandro Maran, deputato dei Ds (Pd). «Si sbaglia in partenza prendendo in considerazione solo i diritti del proprio "popolo", "nazione", a scapito di quelli individuali. C'è una deriva illiberale nel momento stesso in cui, come istituzioni, definiamo nei fatti i confini di una piccola patria», sostiene Maran, che ha proposto almeno un referendum prima che la legge (che ha atteso otto anni per venir adottata e che la precedente giunta di centrodestra ben s'è guardata dal prendere in considerazione) venga varata. «Non vogliono il referendum perché rifiutano la pluralità delle identità in questa regione di meticci. Sì, siamo meticci e per noi vivere al plurale dovrebbe essere la nostra ricchezza, la nostra forza. Non si può parlare in friulano perché te l'impongono. Questo è uno stato di diritto, non etnico».
Lo spettro jugoslavo aleggia sul nordest, troppo consapevole della disgregazione del vicino per dimenticare. E il buon senso della gente sta intasando di lettere i giornali locali: il friulano obbligatorio non piace, a scuola vanno meglio due delle tre «i» di Berlusconi, inglese e informatica, a cui aggiungere la terza. L'italiano.