Manifesto: Non c'è tregua per gli statali
Trattativa rinviata a domani e sciopero confermato al 1 giugno. Il governo prende tempo
Francesco Piccioni
Il «berlusconismo senza Berlusconi» è prima di tutto uno sguardo gelido sulla società; che comporta un modo di governare sprezzante nei confronti di chi non sta «lassù». Nella vertenza sul rinnovo del contratto degli statali, in questi giorni, se ne sta avendo una dimostrazione pratica di inestimabile valore «scientifico».
Che l'incontro previsto per la serata nella sede dell'Aran - l'agenzia incaricata di condurre la trattative sul filo della «direttiva» emanata dal governo - non avrebbe disteso gli animi, si era capito già dalla mattina. Quando la Corte dei conti aveva rilasciato la sua «relazione sul costo del lavoro nel settore pubblico», condita con toni allarmistici e ultimativi: «la spesa è cresciuta a ritmi elevati» nel quinquennio dal 2001 al 2005, «e il suo contenimento deve costituire una priorità». Buon gioro, insomma.
Leggendo tra i vari commi del testo si apprendeva però che il costo medio del personale era cresciuto del 12,8%; grosso modo come l'inflazione, se si applica - come si deve fare - il «tasso composto» (quello usato per i mutui). A voler approfondire, però, si scopriva che a beneficiarne non erano stati tutti gli statali nella stessa misura e che le retribuzioni della «dirigenza» erano salite del 17,4. I diplomatici costavano alla fine addirittura il 21% in più; e che i magistrati - anche quelli della Corte dei conti, ohibò - pesavano sui bilanci per un +26,2%. Niente male, per chi raccomanda di «contenere i salari» altrui.
Inevitabile che a tutti i protagonisti della trattativa quell'invito sia suonato come un «non c'è trippa per gatti». Anche se qualche speranza in più era montata dopo l'incontro del giorno prima fra i tre segretari confederali (Epifani, Bonanni e Angeletti) e il primo ministro Romano Prodi. Il quale, alla fine, se ne era uscito con con la «certezza» che si sarebbe arrivati rapidamente a risolvere tutte le questioni rimaste aperte sugli statali, in modo da poter affrontare più serenamente - e altrettanto rapidamente - il confronto sulle pensioni nelle poche settimane che separano le elezioni amministrative dal varo del Dpef. Tutti avevano interpretato tanto ottimismo come la prova che erano state trovate le risorse fianziarie per portare la cifra dell'aumento medio degli statali dai 93 euro risultanti dalla «direttiva» comunicata all'Aran ai 101 pattuti all'inizio di aprile in sede di accordo quadro a palazzo Chigi.
Le prime indiscrezioni erano però raggelanti: lo «sforzino» in più portato al tavolo si traduceva in un'offerta di 96 euro; ne mancavano ancora 5 all'appello. E tutti i dirigenti degli statali (da Carlo Podda della Cgil a Rino Tarelli della Cisl, a Paolo Pirani della Uil) erano entrati nella sede di via del Corso giurando che «senza una conferma dell'accordo del 6 aprile sui 101 euro non potremo che confermare lo sciopero del 1° giugno».
Nessuno di loro era però preparato ad affrontare le scuse puerili avanzata ufficialmente nel corso dell'incontro. Il governo, in pratica, ha chiesto altre 48 per fare «alcune verifiche tecniche sui conti» e su quanti andranno in pensione al 31 dicembre; così da tirar fuori qualche altro spicciolo da buttare sul tavolo... Come se i 40 giorni trascorsi dall'accordo non fossero stati sufficienti e si potesse ora rimediare con un veloce ricalcolo notturno. La parola più pronunciata all'uscita è stata perciò «sconcertante», seguita subito dopo da «grave». Paola Palmieri, delle RdB, ha ricordato ironicamente la «ciliegina» aggiunta in mattinata «dalla Corte dei conti», ma a tutti è sembrata chiara la divisione interna a un governo in cui «il padrone della cassa», Tommaso Padoa Schioppa, segue una logica tutta sua, indifferente - o ostile - alle preoccupazioni generali per il consenso popolare che scende.
Il «berlusconismo senza Berlusconi» si concretizza così in una versione «povera»: assicurazioni verbali (ai media) che «tutto è a posto» e atti concreti zero. Come se il mondo del lavoro fosse un impiccio di cui si può fare tranquillamente a meno.