Manifesto: «La riforma non basta, servono borse di studio e biblioteche»
Tullio de Mauro L'ex ministro della Pubblica istruzione polemizza con il governo
Simone Verde
«Basta con le belle parole, ora ci vogliono soldi. Perfino Margaret Thatcher spese più e meglio del nostro centro-sinistra». È l'accusa di Tullio De Mauro alla vigilia delle trattative che porteranno al rinnovo del contratto dei docenti. «A forza di trattare gli insegnanti come poveracci - ammonisce l'ex ministro della Pubblica istruzione nel governo Amato del 2000/01 - si è diffusa un'immagine sociale della cultura misera e dannosa».
Per restituire autorevolezza alla scuola, suggerisce quindi De Mauro, non bastano riforme, ma ci vogliono nuovi fondi e più capitoli di spesa: «Borse di studio, aiuti alle famiglie che subiranno economicamente l'innalzamento dell'età dell'obbligo, biblioteche e corsi di istruzione per adulti». L'assenza di queste misure, afferma De Mauro, «dimostra le responsabilità e i limiti storici della sinistra italiana».
Cosa pensa del ministero Fioroni?
Dai documenti pubblicati negli ultimi mesi emerge una volontà di riformare senza traumi che parte da principi condivisibili. Se alle buone intenzioni, però, non seguono finanziamenti adeguati, il nostro paese continuerà a trascinarsi l'eredità di un pesante analfabetismo primario e di ritorno. L'ultima indagine internazionale sulle capacità di lettura, scrittura e calcolo ha rivelato che soltanto il 41 per cento degli italiani è pienamente alfabetizzato. Ragione per cui occorre investire di più. Per gli studenti, ma anche per gli adulti che hanno perso le proprie capacità alfabetiche o che hanno bisogno di continui aggiornamenti professionali.
Una misura utile anche al sistema produttivo.
Certo, poiché i problemi di alfabetizzazione pesano in maniera assolutamente negativa sull'economia. Sono sconcertato nel constatare che soltanto alcuni economisti illuminati come Tito Boeri, il gruppo della Voce o la Banca d'Italia si preoccupano per il peso del deficit culturale sulle capacità produttive e economiche del paese.
Una delle priorità del governo è combattere l'abbandono scolastico. Non crede che senza aiuti alle famiglie più povere, qualsiasi misura rischi di essere velleitaria?
Mandando i propri figli a scuola, le famiglie rinunciano spesso a un salario. Perciò sarebbe necessario, come avviene in molti paesi d'Europa, accompagnare l'innalzamento dell'obbligo con borse di studio mensili per i più poveri. Cominciare con piccole somme sarebbe già un bel passo in avanti, un atto simbolico che restituirebbe autorevolezza alla scuola e sarebbe compatibile con le attuali disponibilità di bilancio.
La mancanza di nuovi investimenti non rivela una responsabilità storica della sinistra nel degrado della scuola?
Nella misura in cui dovrebbe essere più attenta della destra al ruolo dello Stato, sì. In questo senso, c'è una responsabilità culturale, un parallelo tra la crisi della scuola e quella della sinistra italiana. L'errore sta nel limitare l'orizzonte della politica al Palazzo, rinunciando a regolare economia e società. Le faccio un esempio:, il modo con cui oggi si guarda ad Antonio Gramsci. Non è più un pensatore che ci ha regalato pagine importantissime sulla cultura e sul linguaggio ma un uomo politico che ha rotto con i socialisti e ha avuto una certa posizione nell'Internazionale. Tutto il resto è roba vecchia, da buttare via. Ho sfidato platee nelle feste dell'Unità, dicendo che la destra di Margaret Thatcher ha fatto cose che la sinistra italiana non si sogna neanche. C'era un'elaborazione teorica, una visione di sistema che da noi, in Italia, sarebbe più che progressista. Magari avessimo la Thatcher.
Sulla scuola non ha gravato anche un'ansia di modernizzazione che ha prodotto aggiustamenti, ma mai una riforma?
Ha pesato un riflesso incondizionato che Sartori chiama «novitismo». Un'ansia di novità per la novità che grava tutt'ora nella nostra sinistra in fuga perenne dal passato, senza una riflessione e una ricerca per il futuro.
Una sinistra che non riesce a promuovere vere e proprie politiche culturali?
Se si vuole dare una mano alla scuola, non basta riformare i programmi. Ci vogliono risorse, come ho detto, ma anche cultura, diffusa a più livelli. Sono ormai decenni che sappiamo quanto importante sia la presenza di libri in casa per la buona riuscita degli studenti. Facile immaginare, quindi, cosa succede quando l'unico tipo di carta stampata che si ha sotto mano è l'elenco del telefono. Lo stato deve assumersi le proprie responsabilità. Se pensa che a Roma, città che ambisce a diventare una delle capitali europee della cultura, ci sono solo ventotto biblioteche comunali, le verrà forse il sospetto che si deve fare qualcosa in più. È molto difficile svolgere il mestiere di educatore in un paese in cui non c'è niente che si contrapponga al mercato, in cui non ci sono politiche culturali che limitino i danni e la diffusione delle etiche del consumo.
La scarsa autorevolezza dei docenti dipende anche dall'assenza di uno statuto pubblico della cultura?
Certo. So di sfidare demoni terribili, ma la mancanza di rispetto per i professori è legata anche alle basse retribuzioni. Se la figura sociale di un insegnante è quella di un poveraccio, di un fallito, quale rispetto possono avere di lui gli studenti? Ma non solo, è la stessa cultura, così, a essere vista come una cosa da poveracci. E se un poveraccio si permette di dire che mio figlio va male in algebra, io, genitore, vado e gli meno. È un poveraccio! Cose che succedono tutti i giorni e che non fanno più notizia.