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Manifesto-La miseria dei laureati "just in time"

UNIVERSITA'/SAPERI IN CORSO La miseria dei laureati "just in time" "Prodotto finito" NE' DIFETTI di attuazione, né "effetti collaterali". L'impianto di riforma avviato dai governi di centrosinistra...

21/10/2005
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il manifesto

UNIVERSITA'/SAPERI IN CORSO
La miseria dei laureati "just in time"
"Prodotto finito" NE' DIFETTI di attuazione, né "effetti collaterali". L'impianto di riforma avviato dai governi di centrosinistra e l'operato di Letizia Moratti, in nome della modernizzazione e delle virtù regolatrici del mercato del lavoro, hanno trasformato l'università in una macchina industriale progettata a discapito della libertà e dell'intelligenza dei singoli

Formazione e cultura Spesa o investimento? Misurabili con il metro dell'utilitarismo e conformi al sistema delle aziende? Gli studenti stanno dando risposte inequivoche. Non altrettanto rettori e docenti
MARCO BASCETTA
L'agitazione attualmente in corso nelle università italiane sta portando molti nodi al pettine. Primo fra tutti la sostanziale continuità, logica e politica, tra l'impianto di riforma avviato dai governi di centrosinistra (Zecchino, Berlinguer) e l'operato di Letizia Moratti. Se mai l'espressione, generalmente vacua, di "pensiero unico" ha avuto una qualche pertinenza è in questo ambito della riforma universitaria che dovremmo ricercarla. Ma questo è anche il punto in cui comincia a prodursi un visibile attrito tra il punto di vista degli studenti che hanno vissuto sulla propria pelle una devastazione delle condizioni di vita e di libertà e perfino, è il caso di dirlo, della propria dignità di persone, e un corpo accademico certamente penalizzato (soprattutto nella sua componente precaria) dalla riduzione delle risorse e da una "razionalizzazione" di stampo aziendalista dei ruoli e delle mansioni, ma sostanzialmente complice dell'ideologia che ha sotteso la trasformazione dell'università italiana. L'intervento di Enrico Pugliese sulle pagine del manifesto (19 ottobre) costituisce purtroppo un esempio di questo attrito e di questa complicità. Vi si sostiene che la riforma dell'università fondata sulla differenziazione dei livelli di laurea ( il triennio, il quinquennio e il dottorato, il famoso tre più due) fu una scelta di "modernizzazione" (parola ormai quasi impronunciabile) dovuta al fatto che il nostro paese produceva pochi laureati rispetto al resto d'Europa, abbondava di studenti fuori corso, e scareseggiava di iscrizioni dopo la scuola superiore, che l'università nel suo complesso versava, insomma, in una condizione lamentevole. Ma la miseria del passato, conviene tenerlo a mente, non è mai sufficiente a legittimare il "cattivo nuovo". Questa "modernizzazione", interamente calata dall'alto, con un piglio dirigista affiancato da una cieca fede nelle virtù regolatrici del mercato del lavoro, questa riforma di stampo "cinese" che coniugava pianificazione burocratica, culto della "razionalità aziendale" e sostanziale disprezzo per la libertà e l'intelligenza dei singoli, si fondava su una fasulla professionalizzazione di massa (si fa per dire) che tuttavia permetteva all'"azienda universitaria" di vantare un incremento di "prodotto finito" e cioè di studenti portati in un modo o nell'altro a una laureata conclusione, senza alcun riscontro né sul piano dell'occupazione, né su quello della crescita personale, né, men che meno, sullo sviluppo culturale del paese. Perfino i famosi "fuori corso" (considerati oggi una sorta di criminali da condannare a pesanti pene pecuniarie) risultavano più spendibili sul mercato del lavoro, più liberi nella scelta della propria formazione e dei suoi tempi, più colti e versatili degli attuali laureati just in time.

L'impianto della riforma fu, in sostanza di natura ideologica. E non si sentiva davvero il bisogno che qualcuno, da sinistra, si adoperasse nel giustificare, sia pure parzialmente, questa triste storia. Non si tratta, infatti, di "difetti di attuazione", o di effetti collaterali, ma di una idea della formazione che è anche una idea della società nella quale desideriamo vivere, fondata su un'analisi errata delle tendenze in atto e su interessi di breve o brevissimo respiro. Di questo ho l'impressione che gli studenti che occupano in questi giorni numerose facoltà italiane, soprattutto nell'università di Roma, ma non solo, abbiano consapevolezza più piena e matura di tanti accademici, anche di sinistra, che si apprestano a scaricarli, dopo essersene serviti per ammantare le proprie rivendicazioni con la nobiltà dell'"interesse generale".

C'è, a dire il vero, un principio molto chiaro sul quale converrebbe schierarsi: l'istruzione è da considerarsi spesa o investimento? La formazione deve essere ritenuta una conformazione alla domanda contingente (e aleatoria) dell'attuale sistema delle aziende o anche una ricchezza extraeconomica della persona, e della relazione tra persone, che la eccede, la condiziona o la contesta? La cultura è interamente misurabile con il metro di un utilitarismo, peraltro discutibile quanto alla sua effettiva utilità? A queste domande di fondo mi sembra che il movimento degli studenti stia dando delle risposte inequivoche. Non altrettanto può dirsi di rettori e docenti. Pugliese si rallegra che tra gli studenti la percentuale dei "regolari", sia passata, grazie alla riforma, dal 55,8% al 58,8%. Ma cosa sono questi regolari? E questa "regolarità" ha uno sbocco o anche solo un qualche motivo di soddisfazione personale? E tra gli "irregolari" non ci sarà forse anche esercizio di libertà, autonomia e innovazione, oltre, naturalmente, a quelle difficoltà economiche che spetterebbe alla società, in nome dello stesso dettato costituzionale, rimuovere?

Ma raccogliamo anche noi l'invito a fare un poco di storia. Nessuna nostalgia, ma il "meglio" non necessariamente viene dopo. Contrariamente alla "modernizzazione" di targa dirigista degli Zecchino e dei Berlinguer, la liberalizzazione dei piani di studio del 1969 fu imposta alla scaltrezza governativa democristiana da una grande pressione dal basso, da un bisogno di autodeterminazione che registrava il fallimento di quella programmazione classista e conformista delle vite e dei destini professionali che fino allora aveva dominato negli atenei italiani. Forse l'università non divenne compiutamente di massa, ma non fu certo più quella istituzione classista e di élite che aveva preceduto il 1968. Si disse poi, ci dissero i riformatori della sinistra, che gli studenti erano stati così abbandonati a se stessi, che si votavano con scelte ingenue e stravaganti alla disoccupazione, che i più deboli, privati della sicura guida dei burocrati ministeriali, sarebbero caduti strada facendo. Insomma, c'era troppa libertà e la libertà, diceva una vecchia dottrina, è una trappola formale e fatale, un ricettacolo di discriminazioni e privilegi. Senza minimamente comprendere che la cosiddetta disoccupazione intellettuale non era il frutto di un cattivo uso della libertà, o delle discriminazioni di classe in essa celate, bensì l'affacciarsi di nuove forme del lavoro e dello sfruttamento, di nuovi terreni di lotta e della necessità di nuovi diritti, di un nuovo statuto, sofferente, oppresso, ma anche resistente del lavoro mentale, i riformatori proclamarono che era giunto il momento di colmare il divario tra università e mercato del lavoro: inventariare la domanda delle aziende e riorientare su quest'ultima, senza sprechi né divagazioni, l'intero assetto della formazione. Si tentò, insomma, di programmare l'improgrammabile. Quanto più il mercato del lavoro si faceva imprevedibile e indipendente da qualsiasi tassonomia delle mansioni, tanto più l'università si trasformava in un istituto professionale orientato alla trasmissione delle più improbabili e aride competenze indirizzate a una specifica "professionalità". Questa volta, davvero abbandonati a sé stessi, gli studenti venivano accompagnati attraverso una fitta selva di regole e di obblighi come se viaggiassero verso un definito sbocco professionale. E questo come se fu già sufficiente ad annientare ogni estro individuale e ogni arricchimento culturale della collettività, alimentando al tempo stesso un fiorente quanto truffaldino mercato della formazione privata (senza tenere conto della quale tutta questa storia risulterebbe incomprensibile).

Il risultato di questa furia ideologica della riforma è l'università che abbiamo sotto gli occhi: una macchina industriale progettata per fabbricare una gamma diversificata di figure standardizzate e precarie, un sistema di controllo capillare esercitato attraverso una rigida gabbia di frequenze, esami, obblighi, che cancellano ogni elemento personale e relazionale nella formazione culturale dei singoli. Una proliferazione inconsulta di insegnamenti, corsi, moduli, competenze, specializzazioni, master, mirati presumibilmente (almeno questa sarebbe una spiegazione razionale) a "sistemare" accademicamente il precariato e il parentado sulla pelle degli studenti e della loro vita quotidiana, a scapito di ogni serietà scientifica e utilità sociale.

Scomparsi i libri, il tempo della riflessione e della discussione, non resta che una corsa affannosa attraverso scadenze didattiche d'ogni genere, segnate da una farraginosa contabilità di crediti, debiti e certificazioni, un tempo riempito a viva forza dal simulacro dell'efficienza. Che l'80 per cento degli studenti si dichiari soddisfatto di questa situazione, secondo una indagine citata da Enrico Pugliese, è davvero sorprendente, almeno quanto i sondaggi effettuati da Emilio Fede sulla popolarità del cavaliere. Come sorprendente è la circostanza che la grande stampa democratica tenga molto in sordina, quando non taccia del tutto, il movimento degli studenti. In fondo erano quindici anni che importanti università italiane non venivano occupate, in fondo in parlamento sta per essere approvato il ddl Moratti, una delle leggi più avversate dell'intera storia della Repubblica. Il fatto è che buona parte dell'establishment della sinistra ha preso parte, chi più chi meno, a questo scempio o ne ha tratto qualche vantaggio, scavandosi nicchie e tornaconti dentro una idea aziendalistica e competitiva dell'autonomia universitaria. E l'assenza totale di qualsiasi elemento di autocritica non lascia certo ben sperare riguardo alla futura politica universitaria dell'Unione.

A rompere le uova nel paniere, e cioè una trattativa per la ripartizione delle risorse, tutta interna a questa idea di università, si è manifestata in questi giorni una dilagante soggettività degli studenti, che ha potuto giudicare per esperienza diretta la miseria di questo modello e riproporre la propria libertà come forza produttiva. Non si sente più invocare, come qualche anno fa, il salvifico interventismo dello Stato padrone, ma comincia a farsi strada una diversa idea, partecipata e dinamica, della sfera pubblica. Che non riguarda solo ilo mondo della formazione e dell'università, ma la generale moltiplicazione di regole, obblighi, obbedienze dettate dall'alto che accompagnano, facendo giustizia di un antico feticcio ideologico, la libertà senza freni delle imprese e dei capitali.


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