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Manifesto: L'onda d'urto di slogan e invettive

La prima parola che viene in mente appena ci si avvicina al corteo è «onda»

31/10/2008
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il manifesto

Giuseppe Antonelli
La prima parola che viene in mente appena ci si avvicina al corteo è «onda». Un nome adatto a definire questa marea di persone che continuano ad arrivare e a rimettersi in moto, che avanzano festose al ritmo di tamburi e percussioni, di tromboni e fischietti. La manifestazione è tutt'altro che silenziosa (dalle orecchie di un manifestante un po' attempato spuntano vistosi tappi di cera), ma non c'è un coro condiviso che le dia davvero una voce: è come se - in mancanza di parole d'ordine comuni - si preferisse optare per una colonna sonora fatta soprattutto di Caparezza («io vengo dalla luna») e di Modena City Ramblers, di Africa Unite e di 99 Posse («voglio il salario garantito»). Allo stesso modo, il visuale prevale sul verbale: vignette, caricature, travestimenti, messinscena sono spesso un contesto senza il quale i singoli testi non avrebbero nessuna efficacia: una Gelmini con l'aureola («Beata ignoranza»), un lenzuolo su un bastone («lo spettro della ricerca»), uno studente di medicina con il camice («se lo sapevo, facevo l'idraulico»). Per protestare contro i tagli del governo, l'ironia punta sul suono delle parole («più si taglia, più si raglia»), riporta le metafore al loro significato letterale («tagli alla scuola, generazione di mutilati»), lavora sui modi di dire («tagliate, tagliate, che la ricerca taglia la corda») e sull'associazione d'idee («Gelmini e Carfagna sarte subito»). Quello che colpisce, però, è che l'ironia muove in molti casi da un modello preciso: «no Gelmini, sì party», «don't touch my school», «Berluscard: il nostro futuro non ha prezzo». Gli slogan politici come succedanei degli slogan pubblicitari, la creatività linguistica della contestazione a rimorchio di quella dei copywriter. Come se ormai fosse impossibile - anche per chi urla «attento Berlusconi, noi non siamo un format» - andare oltre l'immaginario televisivo.
L'invettiva ad personam fa parte del genere: trent'anni fa si leggeva «Amendola con le orecchie a svendola», oggi «meglio bionda che Brunetta»; allora «dite a Lama che lamo», oggi - preferendo ai Platters le filastrocche, perché in ballo c'è anche la scuola primaria - «Stella stellina la notte si avvicina, la scuola traballa, l'istruzione è nella stalla». Ma forse un tempo si osava di più: oggi ci si proietta in un «occuperemo anche il futuro», un tempo ci si spingeva a «presto occuperemo il paradiso». Si era più radicali anche nell'eversione linguistica: gli studenti di chimica giocano oggi sui tecnicismi («chimica reagisce!», «i chimici non sono inerti»); nel '77 gli studenti di un liceo artistico giocavano con la logica: «no alle bistecche, sì ai sacrifici: siamo degli artisti, mangiamo le vernici». Di sicuro, oggi si è più pessimisti: «siamo sul baratro, ma questa riforma è un passo avanti».
Poi a un certo punto, a via Sistina, spunta un cartello che sembra uscito dal passato: «Cossiga dimettiti», e mi accorgo di un'assenza. All'epoca in cui corrispondeva al ministro dell'interno, quel nome veniva spesso scritto «Kossiga», con quel k politico che - ancora vivo nelle «okkupazioni» della Pantera - oggi non si usa più. Adesso, però, ci sarebbe a disposizione il k telematico della sms generation («ki 6?» «1 kasino» e simili). E invece niente: migliaia e migliaia di cartelli, manifesti e striscioni ma non una k, non un'abbreviazione, non un emoticon, non un numero (perché non 3monti, ad esempio?) Più che un'assenza, si direbbe una sorta di rimozione collettiva per un movimento che sembra temere l'identificazione generazionale quasi quanto quella politica.


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