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Manifesto: Il valore della conoscenza

Alba Sasso

08/07/2008
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il manifesto

È drammatico il taglio nel settore della conoscenza contenuto nel decreto Tremonti. Ritorna, ma con maggiore violenza, un'idea - alla quale non si sono sottratti nemmeno i governi di centro sinistra- secondo cui sapere e cultura sono costi e non investimenti.
Si perdono nel corso del prossimo triennio 87.335 cattedre; è previsto il taglio di 100 mila docenti e 45 mila Ata (ausiliari, tecnici, amministrativi). Anche il governo di centrosinistra aveva tagliato il numero delle cattedre, facendo leva sul blocco del turn-over ma almeno aveva compensato con il piano triennale di immissione di 150 mila precari. Oggi su 8/10 docenti che vanno in pensione si prevede una sola assunzione e il piano di immissione in ruolo dei precari è messo seriamente in discussione. Già quest'anno rispetto ai numeri previsti dalla finanziaria 2007 ne saranno immessi in ruolo nemmeno la metà.
Alla riduzione delle cattedre si arriva con il taglio del tempo scuola, formando classi più affollate, tornando al maestro unico nella scuola elementare, ecc. Si toccano i punti di qualità del sistema: il tempo pieno, la scuola elementare, la formazione degli adulti, e soprattutto gli insegnanti di sostegno. E si taglia soprattutto nel Mezzogiorno, dove la dispersione è più alta e l'obiettivo di Lisbona - dispersione scolastica al 10 per cento nel 2010 - un vero e proprio miraggio. E' una scelta precisa quella di colpire il sistema pubblico dell'istruzione nella sua funzione primaria di riequilibrio sociale.
Qui credo sia il nodo vero della discussione: e non solo in Italia. Se il sapere è bene comune da garantire a tutti, come diritto alla crescita culturale e civile dei singoli o è bene di consumo, definito dalla domanda del cliente. Oggi c'è però qualcosa di più nelle politiche di Tremonti e Gelmini. Da un lato il principio della sussidiarietà che affida allo stato un ruolo residuale, mettendo in discussione un principio costituzionale. Dall'altro gli annunci di resa, come già nei governi precedenti, al contenimento della spesa, «perché i conti dello stato e la situazione internazionale lo impongono».
La destrutturazione del pubblico e insieme il suo impoverimento. E' una manovra che cambia i connotati della scuola così come l'abbiamo conosciuta finora.
Gli effetti di queste misure peseranno da domani sulle famiglie e sugli Enti locali. Peseranno anche nel paese. Se c'è oggi emergenza educativa è anche perché lenta e inesorabile è stata la diminuzione dell'investimento nell'istruzione dal 10,3 del '90 al 9,7 del 2005. E oggi l'Italia investe in istruzione e ricerca il 4,8 per cento del Pil mentre la media dei paesi Ocse è del 6,1per cento. Allora come si poteva costruire la cosiddetta società della conoscenza e tener dietro all'agenda di Lisbona?
E ancora. Un paese che ha visto in questi due decenni regredire il suo sistema produttivo e industriale, che ha fatto sempre più centro sulla riduzione del costo del lavoro, abbandonando la ricerca e le produzioni innovative, finisce con lo sposare abbastanza naturalmente una filosofia che destituisce di valore l'istruzione non solo in funzione della democrazia ma anche dello sviluppo. Va in cerca di manodopera dequalificata per produzioni dequalificate. E' per questi motivi che la battaglia per la scuola non può essere fatta solo dalla scuola.


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