Manifesto:Il sapere ritrova la voce
E' alla società civile che questo movimento si rivolge ed è l'intera società che questo movimento attraversa.
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Iaia Vantaggiato
Che senso ha protestare contro un decreto legge di fatto già approvato? Che senso ha scendere in piazza, occupare scuole materne e aule universitarie, tenere lezioni in giardino e per strada quando la riforma Gelmini è a un passo dal diventare il nuovo esile e banale abbecedario dell'intero sistema italiano dell'istruzione e della formazione?
Ebbene noi crediamo che questa protesta abbia un senso perché quella riforma, lungi dall'essere una delle tante che nella storia della Repubblica si sono succedute, è piuttosto il paradigma di una politica di governo complessiva. Una politica (e un governo) che crede di poter nascondere i suoi abiti sdruciti e spesso sudici sotto un grembiule nuovo, che crede di poter zittire la stampa indipendente amplificando la voce del maestro unico dell'informazione e che si arroga financo il diritto di bacchettare la Corte Costituzionale dando voti di condotta ai giudici indisciplinati.
Contro questa politica e contro questo governo si gonfia - di ora in ora - la mobilitazione di questi giorni. Non una battaglia settoriale né una «semplice» lotta in difesa del salario o dello status giuridico ma un vero movimento di popolo che chiede democrazia e pari opportunità di partenza (e di arrivo) per tutti. L'unica possibilità di mobilità sociale - si ricomincia a dire da più parti - è nello studio. Toglieteci questo diritto e torneremo a essere quella società di caste censorie che tanto piacerebbe a quel governo elitario e verticista che le ultime elezioni ci hanno consegnato.
Del resto che a muoversi sia una parte del paese reale che - ancorché prostrato - da anni non appariva così coeso e determinato, lo dimostra l'appello all'unità lanciato da fronti che, sebbene differenti, appaiono ormai uniti. Saltano negli atenei le sigle dei collettivi, ricercatori e docenti si riuniscono in assemblee che mai si chiudono al contributo degli studenti, i genitori dei bambini delle elementari si ribellano all'idea di quel maestro unico - tuttologo e poco qualificato - che ha segnato la loro infanzia con una implacabile matita rosso-blu.
E all'appello all'unità segue quello all'«evasione». Evasione dallo «spazio costretto» delle aule per uscire e attraversare le città, quelle abitate da chi - a differenza di Brunetta - non crede che nel pubblico impiego ci siano solo fannulloni o che gli insegnanti svolgano un lavoro a metà tempo.
E' alla società civile che questo movimento si rivolge ed è l'intera società che questo movimento attraversa. Non c'è assemblea, riunione, coordinamento, drappello in cui si discuta dello stipendio dei docenti o della condizione dei ricercatori. Questioni note che rappresentano solo un tassello dello stato di (dis)grazia in cui versa un paese che ha deciso di svendere le sue menti e i suoi giovani, un paese che blatera di grande industria e investimenti ma che poi è incapace di investire in quella «merce» destinata ad acquisire nel tempo sempre più valore. Parliamo del sapere e della ricerca, delle idee, della loro produzione e della loro circolazione.
Il movimento di questi giorni non è solo un movimento politico. E' l'unica nonché preziosissima forma di Politica che ci è data. Non basta osservarla. Bisogna anche noi, tutti insieme, attraversarla.