Manifesto: Braccia incrociate
Assemblee in tutta Italia dei ricercatori. Occupazione di alcuni rettorati. Vogliono la fine del precariato negli atenei, mentre il disegno di legge di Maria Stella Gelmini prosegue nella riduzione dei finanziamenti all'università pubblica. Oggi sit-in davanti al Senato
Roberto Ciccarelli
ROMA
Sciopero della didattica, occupazione dei rettorati in tutta Italia, oggi a Roma mobilitazione dei ricercatori e degli studenti sotto il Senato. Nulla di tutto questo è bastato al ministro dell'università Mariastella Gelmini per maturare almeno un dubbio sulla riforma che porterà il suo nome. Chi protesta, quindi il 60 per cento dei ricercatori italiani, «ripete vecchi slogan». La riforma dell'università - ha affermato ieri in una nota - «elimina sprechi e privilegi, rivede la governance degli atenei, punta sul merito, apre le porte ai giovani».
Non una parola sul taglio complessivo da 1,5 miliardi di euro imposto ad un sistema tradizionalmente sottofinanziato, né sul fatto che a settembre partirà il terzo scaglione della legge 133 che impedirà a molti atenei di chiudere il bilancio. Il muro che il governo ha eretto ormai da due anni davanti alle critiche di una parte cospicua, sebbene non maggioritaria, della comunità accademica viene di solito celebrato in nome di una modernità meritocratica e pauperistica che dovrebbe risolvere addirittura il problema, a dire del ministro, «dei ragazzi e del loro futuro». Sebbene ci siano state molte occasioni per chiarire di quale futuro e di quale modernità si stia davvero parlando, nessuno ha ancora chiarito quale criterio economico e sociale continui ad ispirare tale previsione. Ma se per caso si volesse andare a fondo alla questione, allora si dovrebbe ascoltare davvero quello che i ricercatori e gli studenti raccontano del proprio futuro.
Nelle assemblee che si sono tenute ieri in tutti gli atenei romani è stato spalancato il libro degli incubi. Nell'aula magna della Sapienza, semivuota nonostante l'altissimo numero di adesioni allo sciopero previsto in autunno (mille ricercatori su 2 mila), è stato ricordato che, causa tagli, il governo dovrà registrare ben presto la chiusura di 15 atenei, il ridimensionamento verticale del corpo docente (meno 30 mila persone entro il 2020 su un totale di 70 mila), il rafforzamento del blocco del turn-over annunciato da Tremonti nella finanziaria in arrivo. Anche i meno partecipi alla protesta come la Conferenza dei Rettori ammettono che senza il rifinanziamento l'università - come l'intero sistema della formazione - verrà dismessa completamente. Molti altri condividono questa previsione, che è realistica non retorica come quella del ministro. Il punto è su come proseguire una lotta che fino ad oggi ha prodotto una debolissima consapevolezza sulla drammaticità del momento in chi dovrebbe fare opposizione in parlamento e un sin troppo limitato ascolto in una società stordita dalla crisi e depressa per un futuro che vira al nero. I ricercatori precari e gli studenti hanno dimostrato di avere le idee chiare. Hanno ricordato ai ricercatori a tempo pieno, molto spesso e comprensibilmente preoccupati per un futuro sospeso tra una carriera bloccata e un riconoscimento di status che non arriverà mai, che oggi in gioco è la liquidazione dell'intero sistema delle garanzie sociali per le generazioni più giovani come per quelle più mature. Affannarsi quindi nella creazione di canali preferenziali per diventare «professori associati» è del tutto irrilevante quando è in discussione l'accesso ai diritti fondamentali.
Il rischio è che la mobilitazione si ripieghi su istanze poco comprensibili e, in fondo, corporative mentre invece si dovrebbero coinvolgere gli studenti trasformando le lezioni in assemblee. Uno dei tanti modi per spalancare finalmente il futuro a chi oggi non lo possiede senza limitarsi a leggerlo sui libri contabili.