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Lo spread della cultura

La partita dell'equità oggi si gioca proprio in questo campo: sull'efficacia sostanziale dell'educazione

03/09/2012
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di Graziella Priulla*

Le debolezze politiche ed economiche dell'Italia derivano dalla sua carenza di investimenti sulla qualità dell'istruzione. La partita dell'equità oggi si gioca proprio in questo campo: sull'efficacia sostanziale dell'educazione. Ecco perché la valutazione dell'insegnamento è un obiettivo irrinunciabile La precarietà del futuro e il ristagno del sistema Italia sono in parte il risultato di una lunga e colpevole disattenzione alla qualità dell'istruzione. Il ristagno produttivo, che dura dagli anni 90 insieme alla scarsa capacità d'innovazione, è frutto anche dello scarso bagaglio culturale della popolazione, L'arretratezza di un Paese non dipende soltanto dalla sua produzione industriale o dalla sua bilancia commerciale, ma dalla pochezza complessiva della sua classe dirigente. Quote consistenti di forza lavoro a bassa qualificazione possiedono competenze inadeguate al mondo contemporaneo, ma commettono errori marchiani e mostrano lacune imperdonabili anche persone con elevate posizioni professionali: medici, avvocati, ingegneri, architetti dovrebbero saper leggere qualcosa di più complesso di un rotocalco, saper scrivere qualcosa di più evoluto di una parcella o di una ricetta. Si collocano a livelli bassi anche manager e dirigenti addetti a servizi pubblici essenziali: come stupirci se l'Italia arranca nella gara planetaria? Che da decenni qui si investa poco ma soprattutto male sull'istruzione lo dimostrano le prestazioni complessive degli studenti, attestate sia da molte indagini internazionali sia dall'esperienza diretta di centinaia di migliaia di docenti: la crescente gracilità delle conoscenze e delle competenze è uno spaccato impietoso della direzione presa dal settore più strategico per lo sviluppo del Paese. Da un lato non riusciamo a coltivare e a valorizzare i talenti, dall'altro assistiamo a un abbassamento complessivo dei livelli del sapere erogato e a un parallelo slittamento dei livelli culturali medi delle giovani generazioni. Un tempo la partita contro la disuguaglianza si giocava a monte, sull'equità delle opportunità; ora si gioca a valle, sull'efficacia sostanziale dei processi educativi, per cui si sono creati scompensi sempre più gravi, differenze sempre più forti tra una zona e l'altra, tra un indirizzo e l'altro degli studi, tra un ceto e l'altro. Fino a quando l'immagine della scuola è stata collegata alla domanda sociale di modernizzazione, essa ha fruito dell'alone positivo dell'idea di progresso. Via via il rinforzo sociale si è spento. Oggi anche la scuola è schiacciata dalle macerie del discredito delle istituzioni. Il campanello d'allarme suona da tempo, ma abbiamo finito per pensare che non fosse poi tanto importante. Ci siamo divisi tra chi ritiene trascurabile la situazione e chi la definisce irrimediabile. Ormai diamo per scontato che il sistema scolastico fallisca nel suo compito, e ci consoliamo o mandando i figli all'estero (se siamo ricchi), o esaltando (se siamo ottimisti) le numerose eccezioni, che però non fanno massa critica. Ci siamo adattati al fatto che le giovani menti con cui ci rapportiamo siano in gran parte incapaci di svolgere anche compiti che a noi paiono elementari, e che presentino deficit inauditi sotto molti profili, dalla memoria all'attenzione, dalla comprensione alla produzione di testi, dalla capacità di risolvere problemi alla curiosità intellettuale, Fino a ora i nostri sistemi di rilevazione sono stati attenti alla regolarità dei percorsi di studio più che alla loro efficacia, misurando ciò che è quantificabile senza troppi sforzi organizzativi: gli abbandoni, il tasso di ripetenze, il voto in uscita... La definizione delle competenze e del modo di rilevarle, il loro rapporto con le conoscenze sono questioni ben più complesse e meriterebbero di essere discusse e confrontate con i diretti protagonisti delle azioni valutative, gli insegnanti. Passo decisivo per un rigoroso processo di professionalizzazione del corpo docente dovrebbe essere quello di aiutarlo a passare da un'interpretazione impressionistica dei risultati del proprio lavoro a una conoscenza informata, basata su dati obiettivi. Indicatori validi erga omnes delle prestazioni degli studenti non sono mai stati accolti con troppo favore in Italia. Che l'autovalutazione abbia enormi limiti, è fin troppo evidente (a meno che non si limiti a registrazioni burocratiche). Parlare di valutazione esterna e pensarne i significati e gli effetti pare operazione inquietante e indesiderabile, coinvolge fortemente le reattività per l'alone intrusivo che vi si intravede. In mancanza di chiarezza circa il suo utilizzo è vissuta come sinonimo di esame, ricorda l'antica ispezione. Il processo è percepito come potenzialmente punitivo, e dunque allarmante e destabilizzante, da molti di coloro che Manca un confronto serio su cosa valga la pena insegnare e apprendere nel terzo millennio ruotano attorno al sistema scuola. Questi timori sono stati spesso coperti dal richiamo idealistico all'ineffabilità del rapporto pedagogico, che non tollererebbe misurazione. Solo da poco si sono fatte largo posizioni di adesione, o almeno di circospetta attenzione. L'intero dibattito si è concentrato sui test e sui possibili effetti retroattivi determinati dalle prove nelle scelte, nelle motivazioni e nella pratica dei docenti (nel legittimo timore che a una valutazione standardizzata finisca per corrispondere una didattica altrettanto standardizzata, o che si decida di insegnare ciò che qualcuno prima o poi valuterà). Sono stati meno trattati e divulgati gli aspetti riguardanti la distinzione tra misurazione e valutazione, le finalità della valutazione, i suoi ambiti. Soprattutto, l'insistenza sull'ineludibilità della valutazione non è stata accompagnata da un confronto serio su che cosa valga la pena di insegnare e di apprendere nel terzo millennio, e quindi sulla necessaria revisione degli obiettivi e dei metodi formativi. Da anni non conosciamo un dibattito su quale debba o possa essere la formazione più idonea per giovani che appartengono interamente al XXI secolo. Servirebbero visioni strategiche, scelte che possano dare risultati tangibili fra anni, non fra mesi o giorni. Servirebbe una radicale inversione di tendenza, un'energia collettiva che ponesse la scuola come grande priorità nazionale. È stato fatto per lo spread della Borsa, possiamo farlo per lo spread della cultura?

*docente di Sociologia dei processi culturali all'università di Catania. Autrice di L'Italia dell'ignoranza. Crisi della scuola e declino del Paese, Franco Angeli, 2011

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