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Lo spot sui ricercatori «ad alta velocità» non farà rivivere il deserto degli atenei

Il futuro della ricerca visto dagli spaghetto-liberisti. In arrivo la pros­sima riforma dell’università.

20/10/2015
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il manifesto

Di Roberto Ciccarelli

Un bri­vido lin­gui­stico si è impa­dro­nito della mini­stra dell’Università Ste­fa­nia Gian­nini quando sabato scorso, davanti a una pla­tea dei gio­vani di con­fin­du­stria a Capri, ha defi­nito la mode­sta pro­po­sta di assu­mere 500 ricer­ca­tori ita­liani e stra­nieri dall’estero, auto­mu­niti di «gruz­zolo» da rega­lare agli ate­nei affa­mati di fondi, «l’alta velo­cità della cono­scenza» che creerà «500 cat­te­dre di eccel­lenza». L’intero imma­gi­na­rio delle classi domi­nanti è con­te­nuto in un’espressione calei­do­sco­pica che con­tiene tutti i luo­ghi comuni di un malin­teso sviluppo.

L’alta velo­cità ha distrutto il tra­sporto locale e ha reso impos­si­bile viag­giare sotto gli 80 euro a biglietto in Ita­lia. Uno svi­luppo di «eccel­lenza», cioè per chi se lo può per­met­tere. Que­sta è la fore­sta dei sim­boli in cui vivono ai piani alti del paese, dan­nosi tanto per l’ambiente (le grandi opere come la Tav) quanto per l’ecologia della mente (più che di eccel­lenza dall’estero l’Italia avrebbe biso­gno di ricerca di base e di un sistema uni­ver­si­ta­rio libero da baroni e precarietà).Con que­sto via­tico il Pd, e il governo sol­le­ci­tato venerdì scorso da Vene­zia dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi, si avviano alla nuova — l’ennesima — riforma dell’università. Per­ché il gioco è noto: su un piatto hanno messo i 500 «cer­velli eccel­lenti», oltre ai mille ricer­ca­tori di «tipo B» per tre anni da reclu­tare solo negli ate­nei «eccel­lenti» con il bol­lino Anvur e l’iniqua «Valu­ta­zione della qua­lità della ricerca» (Vqr), il sistema che divide gli ate­nei del Sud da quelli del Nord del paese. «è un reclu­ta­mento troppo esi­guo — sosten­gono i dot­to­randi dell’Adi — siamo lon­tani dal piano straor­di­na­rio da 10 mila ricer­ca­tori invo­cato da più parti. La Vqr userà la pre­mia­lità in un’ottica puni­tiva e pro­muove mec­ca­ni­smi di finan­zia­mento discriminatori».

Sull’altro piatto, Renzi con­ti­nua la riforma Gel­mini con gli stessi mezzi e con una reto­rica molto aggres­siva. «Dob­biamo togliere l’Università dal peri­me­tro della pub­blica ammi­ni­stra­zione per­ché non si governa l’università con gli stessi cri­teri con cui si fa appalto in una Asl o un comune — ha detto — È neces­sa­rio scom­met­tere su cri­teri dove il modello uni­ver­si­ta­rio possa essere Boston o uni­ver­sità inglesi o in Oriente».

La sto­ria: E se Renzi assu­messe 500 ricer­ca­tori per farli fug­gire dall’Italia?

Che cosa, in realtà, signi­fi­chi “togliere uni­ver­sità dal peri­me­tro pub­blica ammi­ni­stra­zione” non è affatto chiaro, dato che l’università non è gover­nata come una Asl o un comune, ma dall’autonomia degli organi eletti dalla comu­nità acca­de­mica e dai lavo­ra­tori e stu­denti che un governo come quello di Renzi si pre­suma cono­sca. L’illusione «ame­ri­cana» degli spaghetto-liberisti che domi­nano la scena uni­ver­si­ta­ria è di respiro corto. Esi­ste una dif­fe­renza sostan­ziale tra l’Italia e gli Usa. Il fondo dei nostri ate­nei ammonta a meno di 7 miliardi di euro. Solo il Mit di Boston riceve 2,5 miliardi di fondi pub­blici. Quello che manca in Ita­lia non sono gli inve­sti­menti dei pri­vati, ma l’intervento sta­tale come negli Usa.

In que­ste con­di­zioni, uscire dal diritto ammi­ni­stra­tivo per gli ate­nei signi­fica pri­va­tiz­zare il sistema uni­ver­si­ta­rio» sostiene Alberto Cam­pailla, por­ta­voce degli stu­denti di Link. Altro esem­pio: Har­vard Uni­ver­sity ha un bilan­cio di 36,4 miliardi di dol­lari, quella di Bolo­gna ha entrate da 750 milioni e uscite per 736. È come se Gian­nini avesse sco­perto oggi la bici­cletta men­tre gli altri viag­giano in aereo, a pro­po­sito di alta velo­cità della cono­scenza» iro­nizza Dome­nico Pan­ta­leo, segre­ta­rio della FLC CGIL. Con una costante: la legge di sta­bi­lità non mette un euro sul diritto allo stu­dio. «L’uscita dalla pub­blica ammi­ni­stra­zione com­pleta il qua­dro — con­ti­nua il sin­da­ca­li­sta — Renzi non sa che il pro­blema dell’università non è l’essere sog­getto pub­blico. Sono tutte le norme intro­dotte dal 2008 in poi e in par­ti­co­lare la riforma Gel­mini ad aver inges­sato gli ate­nei». «Il governo toglie l’Imu anche sulle grandi pro­prietà, con­trae il diritto allo stu­dio e destina risorse esi­gue a scuola e uni­ver­sità. Tutt’altro che andare orgo­gliosi» sosten­gono Alberto Irone della Rete Stu­denti Medi e Jacopo Dio­ni­sio dell’Udu.

Nel paese che in dieci anni ha perso 100 mila stu­denti imma­tri­co­lati, stu­dia chi se lo può per­met­tere. E chi fa ricerca? Deve pagare per lavo­rare, come i dot­to­rati senza borsa. «Com­pren­diamo il legit­timo orgo­glio con cui il Mini­stro Gian­nini riven­dica l’aumento del numero dei con­tratti di for­ma­zione spe­cia­li­stica dei medici, gra­zie a un incre­mento di 429 milioni di euro, dal 2016 al 2020, delle risorse desti­nate  — sosten­gono i dot­to­randi dell’Adi — Rite­niamo tut­ta­via che tale orgo­glio sarebbe potuto essere più pieno e giu­sti­fi­cato se si fosse risolto anche l’annoso pro­blema del dot­to­rato senza borsa. Oltre 2.000 col­le­ghi per ogni ciclo non per­ce­pi­scono alcun soste­gno eco­no­mico per il loro per­corso e sono costretti a pagare tasse che pos­sono arri­vare fino a 2.000 euro l’anno».

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