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Liberazione: Tre «mission»: premiare il merito, abbattere la scuola, cancellare il ‘68

Lì per lì, bisogna confessarcelo, abbiamo tutti preso la Maria Stella Gelmini un po’ sottogamba

15/11/2008
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Liberazione

(di Rina Gagliardi)

Lì per lì, bisogna confessarcelo, abbiamo tutti preso la Maria Stella Gelmini un po’ sottogamba - sembrava, anzi era, un’avvocata della stirpe lombardo-rampantina, una miracolata dal Cavaliere (oltre che dall’università calabra che le regalò a modico prezzo l’abilitazione), insomma una signorina-nessuno. Invece, adesso, va detto che la ragazza ci ha preso gusto. Le piace da morire comparire ogni giorno sui giornali, essere al centro della ribalta e delle polemiche, sproloquiare di temi di cui, in tutta evidenza, non sa nulla, come i sistemi scolastici (alla faccia del “merito” e della competenza, ma tant’è). La solletica molto, specie dopo l’avvento della “pitbull col rossetto”, l’idea di apparire una tosta, una grintosa, una che non ha paura di nulla - ieri, dopo il dibattito al liceo Newton, è arrivata a dire che no, non vuole polizia contro chi fischia e che ai “facinorosi” ci pensa lei, direttamente. E, soprattutto, la affascina una missione (speriamo impossibile): passare alla storia (si fa per dire) come colei che ha fatto definitivamente a pezzi il sistema nazionale dell’istruzione. Il sistema in tutte le sue articolazioni, dall’asilo all’università, senza trascurare le medie e le medie superiori. Non è mica un’ambizione da nulla. E non serve, per un’impresa destruens di questa portata, alcuna speciale competenza: basta un’accetta bicipite. Una molto, sia pur bassamente, ideologica, che asseconda il peggio dello “spirito del tempo”. E una politica, di politica economica, di scelte concrete.
Attenzione, c’è poco da scherzare.
La Maria Stella Gelmini, dicevamo, tolta i “simboli” dei grembiulini, del voto di condotta e del ritorno agli anni ‘50, ha due chiodi fissi: il primo è che gli insegnanti sono “troppi” e vanno dunque e comunque diminuiti; il secondo è la priorità della valorizzazione del “merito”, dei talenti finora repressi, delle eccellenze, della qualità, e così via. Da Sarkozy, ha copiato, in proposito, il refrain della demonizzazione del Sessantotto, che sarebbe alla radice di tutti i mali (della scuola e non solo) e che quindi va - come si può dire? - “sradicato”, assassinato, seppellito, dimenticato.
Si badi bene: su questi cavalli di battaglia della Maria Stella, concorda in parte sostanziale anche l’opposizione piddina. Nella sinistra moderata, non trovi più nessuno - a cominciare da Walter Veltroni - che non voglia “premiare il merito”, che non sogni una società finalmente meritocratica, che non pensi in cuor suo che gli insegnanti sono davvero tanti, troppi e sostanzialmente di scarsa qualità. Tutta questa tiritera, poi, viene alimentata con l’uso politico, strumentale e politically incorrect, delle statistiche europee - tipo l’ultimo rapporto Ocse.
Ma che cosa vuol dire che gli insegnanti sono “troppi”? Qual è, o quale dovrebbe essere, la “giusta dose” di prof nelle complesse società del XXI secolo? E sulla base di quali criteri andrebbe stabilita? E qual è il rapporto ottimale docenti/alunni per classe? Proviamo a partire dalle cifre reali: secondo le rilevazioni ufficiali del 2006, in Italia ci sono 688.643 insegnanti in “organico di diritto”, più 48.607 insegnanti di sostegno, più 201.038 precari a vario titolo. In questo “esercito”, andrebbero (vanno) per altro conteggiati 25.679 insegnanti di religione cattolica, per lo più sacerdoti pagati dallo Stato e scelti dalle Curie, di cui - chissà perché - (quasi) nessuno lamenta il costo o discute l’utilità e la legittimità costituzionale, in una società che sta diventando sempre di più multietnica e multireligiosa. Troppi rispetto ai 7.717.907 scolari e studenti che compongono, più o meno, la popolazione scolastica? O alle circa 42 mila scuole della Repubblica, parecchie delle quali sparse in isole, isolette o zone alpestri? O alla media dei 20,68 alunni per classe, che nella realtà della scuola reale, per ciascun prof, sono molti di più? O al tempo pieno (e prolungato) che caratterizza una parte a tutt’oggi consistente del sistema scolastico di base? In realtà, quando si dice e si ripete quell’aggettivo - “troppi” - si allude a tutt’altro: alla natura improduttiva e parassitaria non solo di tutto ciò che è pubblico, ma di tutto ciò che non genera profitto. La formazione, e la formazione di base in specie, universale e perciò obbligatoria, diritto-dovere qualificante di ogni democrazia che si rispetti, è percepita come un puro costo, senza riscontri e senza ritorni:
ecco la contraddizione insolubile in cui si dibattono il liberismo (pur in crisi), il primato dell’economia (e della quantità) su ogni altra dimensione. Ecco perché la Maria Stella Gelmini può consentirsi di sfasciare la riforma delle elementari che tutto il mondo ci invidia: “troppi” maestri rappresentano ai suoi occhi un assurdo economico, non un’idea avanzata di educazione e formazione. Ma, poiché le esigenze di bilancio e di risparmio non rendono la controriforma del tutto convincente, la signora è costretta a “prendere a prestito” (secondo una modalità tipica del capitalismo e del neoliberismo) un argomento culturalmente arcaico e reazionario: il maestro, anzi la maestra unica, come benefico prolungamento della mamma - e di mamma, come si sa, ce n’è una sola. Quando invece è evidente che oggi, ai fini della crescita culturale, intellettuale e democratica di ogni ragazzino e ragazzina, è essenziale il confronto con una pluralità di punti di vista - e di “formatori” e di esperienze - ed è all’opposto disutile, se non nocivo un riferimento autoritario. Perfino Bossi è arrivato a capire questa - per
altro semplicissima - verità. La Gelmini, invece, va come un carro armato:
perché il suo obiettivo, come dicevamo, è quello tipico delle guerre contemporanee: la “pulizia etnica”. Dalla scuola elementare, con l’obbligo ridotto a 14 anni, si passerà a “tagliare” un anno secco di scuola superiore - un altro considerevole risparmio, un altro massiccio beneficio di bilancio, un’altra drastica diminuzione di cattedre. Ma non è solo una faccenda di ordine sindacale o di posti di lavoro (anche, certamente): è lo sterminio etnico, dicevamo, di una generazione di lavoratori intellettuali.
Qui il cerchio si chiude e si capisce finalmente perché sia evocato il fantasma del ‘68: come se non fossero passati quarant’anni esatti da quella felice stagione, come se quel movimento fosse ancora qui, tra di noi. Ma basta, ancora, dare un’occhiata a quello che accade nella vicina Francia sarkozyzzata: “di che cosa è il nome il Sessantotto”, come scrive Alain Badjou? Ma di tutto ciò che è all’opposto di quella società senza scuola pubblica, senza cultura diffusa, senza diritti universali, senza sviluppo democratico, che sta nelle corde della destra europea oggi al potere. Il 68 è il nome di quella cultura politica e civile nella quale sono cresciuti tanti insegnanti, oggi in una cattedra di liceo o all’università o in un istituto di ricerca - o che comunque ha influenzato e spesso egemonizzato singoli, generazioni, classi. E di quella speranza, oggi sconfitta ma non domata (scusate la retorica), di abbattere “definitivamente” le piramidi gerarchiche, le disuguaglianze, le caste, la società di classe e di censo.
Sì, da questo punto di vista c’è qualcosa di malefico e di geniale nella giovane avvocata bresciana: è l’unica, nel suo governo, ad aver capito che, per procedere sulla strada della Restaurazione, si comincia da lì, dal fondamento - dalla scuola. Tre piccioni con una sola fava (l’accetta): risparmio strutturale di risorse pubbliche, così i tecnocrati della Ue sono contenti; spazio gigantesco per la privatizzazione (attraverso le fondazioni) e l’iniziativa privata, che potrà fiorire davvero soltanto quando, domani, non ci sarà più una scuola pubblica degna di questo nome; fine di quel resta della agibilità della sinistra e - perché no? - della cultura democratica. Tutto il resto - il “merito”, la valutazione, le classifiche, i premi, l’inglese - sono in realtà chiacchiere (le esamineremo in un prossimo articolo). Lei, la Maria Stella, ha capito tutto. E noi?


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