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Liberazione-Sviluppo senza cervelli

Intervista a Marcello Buiatti, docente universitario di genetica, esperto di bioetica Sviluppo senza cervelli Tonino Bucci "Non è una svista, ma la scelta di un modello di sviluppo basato ...

19/10/2002
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Liberazione

Intervista a Marcello Buiatti, docente universitario di genetica, esperto di bioetica
Sviluppo senza cervelli
Tonino Bucci
"Non è una svista, ma la scelta di un modello di sviluppo basato non sulla ricerca scientifica, sull'innovazione di qualità, bensì sulla riduzione dei costi del lavoro". Docente di genetica all'università di Firenze, l'attività teorica di Marcello Buiatti non si limita alle questioni della propria disciplina, ma si allarga alla riflessione dei rapporti tra scienza, economia ed etica. Lo spunto per il ragionamento è fornito dalla Finanziaria che contiene tagli ai bilanci delle università e degli enti di ricerca.

Il governo Berlusconi si dichiara a ogni pie' sospinto liberista e pone al centro dello sviluppo della società l'impresa. Eppure taglia i finanziamenti alla ricerca annullando di fatto la capacità innovativa dell'industria italiana. Come si spiega questa contraddizione interna al liberismo?

Il modello di sviluppo che il governo propone in questa Finanziaria inizia, come tendenza, già negli anni Novanta. Prendiamo l'esempio della Fiat. Persino il governatore Fazio ha detto che il gruppo torinese è in difficoltà perché ha fatto poca ricerca. In realtà, non è che sia mancata la ricerca. La Fiat ha avuto molti ricercatori validi, ma dal '94 in poi ha seguito la tendenza a vendere buona parte delle ricerche. Dopo la "Punto" - che è stata l'ultima macchina competitiva - non ci sono stati più modelli che fossero basati sull'innovazione Fiat. Le vetture erano risultato dell'assemblaggio di tecniche elaborate da altri.

Cosa avviene nel resto dell'Europa?

Anche la Volkswagen, ad esempio, era in difficoltà, ma si è poi ripresa mettendo sul mercato modelli costruiti con innovazione propria. Fiat ha puntato alla finanziarizzazione e allo spostamento delle attività produttive dall'auto verso altri settori. Anziché dirigere gli investimenti nella ricerca, si è preferito trasferirli in altri paesi, puntando tutto sulla manodopera a basso costo. E ha rinunciato all'aumento delle vendite per competitività e qualità, per innovazione di prodotto e di ciclo. Le conseguenze sono ancora più rilevanti se si pensa che Fiat che è l'ultima grande industria italiane. Il 99,4 per cento delle imprese in Italia ha meno di cinquanta dipendenti. Un'impresa medio-piccola non ha soldi da investire a medio termine e non può spendere capitali di rischio. Se la piccola impresa non si concentra non è in grado di accumulare sufficiente capitale per la ricerca - che non è certo un investimento a breve termine. Le imprese italiane ad alta densità di innovazione sono meno dell'otto per cento e stanno calando come numero. In Francia sono il 25 per cento e stanno salendo. In Finlandia ancora di più. In questi paesi hanno scelto di fare profitti, di guadagnare quattrini, investendo sulla qualità. Tramite l'innovazione tecnologica riescono ad abbassare i prezzi e guadagnare con maggiori quantità di merci vendute. E' una dinamica opposta a quella esistente nei paesi in via di sviluppo nei quali si punta alla riduzione dei costi. Le imprese italiane hanno scelto quest'ultima strada.

Con quali prospettive di sopravvivenza nella competizione internazionale?

Nel piano nazionale di ricerca, che è uscito prima della bozza di riforma degli enti, alla Moratti è scappata la confessione che il nostro competitore è la Cina, un paese a bassa densità di innovazione e con un basso livello di ricerca - anche se, per la verità, la Cina si sta muovendo assai rapidamente. In questa competizione perderemmo sicuramente perché i loro costi sono minori dei nostri. In Italia, per quanto si faccia, i sindacati esistono ancora ed è impossibile ridurre i salari al di sotto di un certo livello. Se questa è la strada, la battaglia è persa in partenza. Gli imprenditori del Nord preferiscono investire in Romania dove la forza lavoro è a basso costo e, contemporaneamente, mediamente qualificata. Tutti i paesi dell'Est che stanno entrando nell'Unione europea hanno un buon livello culturale.

Che ruolo può avere la ricerca scientifica in questo modello di sviluppo?

In questo scenario serve non più la ricerca, ma il semplice trasferimento di innovazione fatta dagli altri. La spesa, quindi, può essere bassa, non serve tanta gente, né un livello di qualificazione particolarmente alto. L'attuale sistema di imprese italiano ha bisogno soltanto di assemblare bene e di vendere bene le innovazioni altrui. In sintesi, abbiamo rinunciato ad essere un paese del G7, nel senso negativo, e puntiamo su flessibilità, riduzione dei costi del lavoro e delle sicurezze, sfruttamento delle risorse, sulla mancanza di leggi e regole collettive. Per sopravvivere nel limbo occorre che non ci sia nessuna regola, che non si paghino le tasse e si possa rubare.

Oltre a quello di un modello di sviluppo miope si aggiunge il problema delle condizioni di lavoro di chi opera nella comunità scientifica. I tagli della Finanziaria influiscono tanto sui rinnovi contrattuali quanto sul blocco delle assunzioni. Non è così?

Questo è sicuramente vero per le università. I rettori hanno minacciato di dimettersi perché non riusciranno a pagare gli aumenti contrattuali dovuti al personale universitario. Gli aumenti vanno a carico dell'autonomia delle università. E la stessa cosa, probabilmente accadrà per gli enti di ricerca.

Veniamo a una questione di fondo. Quali margini di autonomia rimangono alla ricerca scientifica, considerato che da un punto di vista sociologico la comunità dei ricercatori e degli scienziati è strettamente legata al potere economico? Che futuro ha la scienza?

Vogliono un rapporto di sudditanza, di servizio. Al posto della scienza è sufficiente che ci sia una tecnologia di basso livello. Si fa una grande confusione tra ricerca e tecnologia, tra scienza e applicazione all'ultimo stadio. Vogliono strutturare la rete di ricerca in maniera da eliminare l'obiettivo della conoscenza - dichiarato nello statuto del Cnr, ora in procinto di modifica - e introdurre un rapporto di servizio con l'esterno. I ricercatori pubblici potranno essere regalati alle imprese le quali non vogliono fare ricerca, ma applicazione della ricerca. A quel punto non si potrà parlare di rapporto tra scienza e potere economico, bensì di rapporto tra ex ricercatori e imprese. Se, invece, all'estero, o negli stessi Stati Uniti, si proponesse di annullare la ricerca pubblica, esploderebbe un putiferio. Sanno benissimo che c'è un ambito che deve essere gestito dal pubblico. Viene prima la cosiddetta "ricerca fondamentale" e poi l'impresa che ne utilizza i dati per l'innovazione. In questo scenario la comunità scientifica ha la possibilità di mantenersi autonoma rispetto al mondo esterno, pur mantenendo con esso un rapporto. La ricerca fondamentale condiziona moltissimo quello che le imprese fanno in seguito.

Chi stabilisce le linee di ricerca, le questioni teoriche, gli ambiti sperimentali?

Uno degli esempi nell'occhio del ciclone è la ricerca sui genomi. Questa è l'attività fondamentale. Poi è servita, purtroppo, a brevettare pezzi di questa ricerca. Non solo il gene che in futuro renderà tantissimo, ma anche gli strumenti per fare tutti i geni che serviranno nelle applicazioni. Chi deve utilizzare un gene per una terapia o un farmaco avrà bisogno degli strumenti molecolari che vengono dalla ricerca genomica. E se non ha un settore pubblico che glieli fornisce, non lo potrà fare.

Quale può essere il ruolo del pubblico?

Potrebbe valutare di volta in volta a chi dare questa conoscenza, per quali fini e nell'interesse di chi. Avrebbe il coltello dalla parte del manico perché senza quella ricerca fondamentale nessuno potrebbe fare nulla. Spetta oggi alla comunità scientifica discutere di questo. In Italia si è sempre affrontato il problema se applicare o meno, ma mai di cosa si debba fare veramente nella ricerca fondamentale. La comunità scientifica è forte della sua conoscenza, e questa conoscenza non può esserle tolta perché senza questo ruolo fondamentale del pubblico le imprese che devono investire a medio termine non potrebbero fare applicazione. E' un ruolo che le imprese non possono sostenere.


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