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Liberazione: Scuola non sai più insegnare

Sarebbe un oltraggio a questo paese disperato e a tutti noi vivi che ne facciamo ancora parte, se la scuola, a distanza di trent’anni, fosse ancora come quell’istituzione castrante descritta da Pier Paolo Pasolini a Gennariello.

11/01/2007
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Liberazione

di Matteo Serpente

Alcuni anni fa, era il 2001, sui teleschermi apparve una strana sequenza di immagini, per qualche secondo un ministro della Repubblica Italiana, un uomo di potere, si mostrò mentre piangeva. Si trattava dell’allora Ministro dell’Istruzione Tullio De Mauro. Fu uno sfogo di delusione di fronte alla lunga serie di critiche che avevano accolto la nuova riforma della scuola. La stampa non diede particolare risalto alla notizia e l’opinione pubblica, in primis gli stessi insegnanti, accaldati negli animi dallo scontro in corso, non si lasciarono impressionare dalla fragilità del gesto. Eppure quelle lacrime furono un segnale. Uno dei più valenti accademici del paese, tra i primi negli anni ’60 a criticare le anomalie di un sistema scolastico antidemocratico, era stato fischiato e sfiduciato da quelle stesse persone a cui aveva dedicato gran parte degli studi di una vita. Quelle lacrime segnarono una frattura nel quadro politico e culturale del paese. Il sogno di un “Italia diversa, più libera e cristiana, più seria e meno sprecona” aveva fatto breccia. Non direttamente certo, non “responsabilmente”, ma attraverso una vittoria sul campo, tutta di facciata, la vittoria della comunicazione sull’insegnamento, del populismo linguistico sulla comprensione emotiva. Erano anni di mutazioni e nuovi ideologismi e la scuola, come molto altro, ne subì il contagio. Come in tanti format televisivi, molti spezzoni della società cominciarono ad abbracciare quello che sembrò un necessario cambiamento di stile, una formula fatta di retorica dell’ottimismo, voyeurismo morale e estetismo della ragione, una forma di super-razionalismo che si prefiggeva la trasformazione del desiderio in volontà di accaparramento, della suggestione in nuova pasta d’umano. In pochi anni la scuola passò da un modello solidale ad uno competitivo, vennero sottratte risorse all’insegnamento pubblico e vennero tagliate molte cattedre. Lo scorso giugno, l’appena insediato Ministro Fioroni ha bloccato l’iter legislativo della legge 53/2003 (cosiddetta Riforma Moratti), ma il mondo della scuola è di nuovo in crisi. Ai tempi della riforma Berlinguer-De Mauro, tra innovatori riformisti e conservatori moderati la sensazione prevalente era che si vivesse tutti quanti in un paese che non sapeva insegnare, un paese che andava educato alla sensibilità verso l’apprendimento, verso la conoscenza come discussione e confronto, verso il sapere inteso come esperimento mentale alla portata di tutti, un paese che andava educato al pensiero, alla conoscenza, alla democrazia. Oggi quello scenario è mutato, perso, e diverso si è fatto il senso e il valore di questa crisi. Le proteste degli ultimi mesi esprimono l’ansia e la disperazione di lavoratori private di diritti, esprimono un sentimento, una passione, l’urlo di persone che combattono per la propria dignità professionale. Un passaggio squisitamente politico della crisi, un passaggio che riguarda le regole del lavoro, un passaggio che più in generale riguarda alcuni aspetti di quella tecnicità pedagogica che mette nelle condizioni di svolgere la funzione dell’insegnamento, perché è questa che oggi è realmente messa in crisi. Ma c’è un’altra crisi, più profonda ancora della prima e più oscena, perché quasi impossibile da affrontare, legata ad un modo ossimorico di ragionare tipicamente italiano per cui se da un lato si afferma la necessità della scuola come fondamento essenziale dell’intera società, dall’altro la società stessa svuota la scuola di ogni valore, di ogni prestigio, di ogni autorità. Una crisi che riguarda il ruolo dell’insegnamento, una pratica antica che consiste nel trasferimento di sapere da una generazione all’altra, una crisi di natura più intimamente culturale e civile, la crisi di un paese che non vuole più comunicare con se stesso e che ha perso la fiducia nel cambiamento. Poco prima di morire, Pasolini si cimentò nella scrittura di un trattatello pedagogico, una specie di dialogo platonico ma senza contraddittorio, il Gennariello delle Lettere Luterane. Nelle poche pagine rimaste incompiute vengono descritti i tanti meccanismi violenti e corrotti che hanno cambiato l’Italia a partire dagli anni ’60, si riprendono considerazioni sociologiche, si cita D’Annunzio, Barthes, Rousseau e De Sade e si disprezza il potere democristiano incarnato in Fanfani, Andreotti e Scelba. Curioso che solo in un breve chiosa Pasolini si riferisca esplicitamente alla scuola definendola come «quell’insieme organizzativo e culturale che ti ha completamente diseducato, e ti pone qui davanti a me come un povero idiota, umiliato, anzi degradato, incapace a capire, chiuso in una morsa di meschinità mentale che, fra l’altro, ti angoscia». Sarebbe un oltraggio a questo paese disperato e a tutti noi vivi che ne facciamo ancora parte, se la scuola, a distanza di trent’anni, fosse ancora come quell’istituzione castrante descritta da Pier Paolo Pasolini a Gennariello.


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