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Liberazione: L’Università italiana è in grave difficoltà non affrontare i problemi sul tappeto non potrà che peggiorare le cose

Alberto Burgio - Armando Petrini

11/11/2006
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Liberazione

In un intervento apparso sul manifesto qualche giorno fa, Alberto Abruzzese ha delineato un quadro a tinte fosche - e largamente condivisibile, almeno nelle linee di fondo - dell’Università italiana. L’articolo si concludeva con un invito a guardare all’essenziale: anche se non tutti gli Atenei versano nelle stesse condizioni, e non tutti dunque navigano in acque egualmente cattive, è bene sollevare il velo sullo scenario peggiore, per la semplice ragione che si tratta del “vero orizzonte in cui guardare, la scena in cui essere convocati”. Siamo perfettamente d’accordo. L’Università italiana è in gravissime difficoltà, e non affrontare i problemi sul tappeto non potrà che peggiorare le cose.
La situazione finanziaria appare estremamente difficile, tenuto conto dei tagli o, nella migliore delle ipotesi, del mancato aumento dei fondi previsto in Finanziaria. La condizione dei precari della ricerca è drammatica: addirittura peggiorata con il blocco delle assunzioni per tutto il 2007. Il diritto allo studio resta ben lontano dall’essere realizzato, vista la diminuzione effettiva delle cifre stanziate negli ultimi anni. La riforma della didattica (il cosiddetto 3+2: una laurea triennale di primo livello seguita da un biennio di secondo livello che ha drammaticamente abbassato la qualità della formazione universitaria) si rivela per quello che è: un clamoroso fallimento. Gli ultimi dati Istat sull’Università mettono il dito sulla piaga. Il numero complessivo delle immatricolazioni negli Atenei italiani diminuisce per il secondo anno consecutivo: dopo tre-quattro anni di crescita (dovuti alle legittime aspettative suscitate dalla riforma), nel 2004-2005 le immatricolazioni calano dell’1,5%. Con il 2005-2006 la diminuzione si fa più consistente, raggiungendo il 4,5% (16.000 studenti in meno), con buona pace dell’idea di un sicuro ampliamento del numero di coloro che la riforma avrebbe avvicinato all’Università. I motivi del calo, sempre secondo l’Istat, sono ben chiari. Il 54,1% degli studenti giudica negativamente la qualità dell’offerta formativa delle Università italiane, e ben il 62,4% ritiene che il nuovo sistema formativo stia peggiorando la preparazione complessiva dei laureati.

Il vero problema è il quadro complessivo in cui si collocano questi singoli aspetti. L’Università italiana è sotto attacco da un quindicennio, dall’introduzione del principio dell’“autonomia finanziaria” degli Atenei, che ha avviato di fatto l’applicazione di una logica di carattere imprenditoriale (aziendalistico e sostanzialmente privatistico) al mondo della formazione e della ricerca universitaria. Al di là delle promesse e della propaganda, tale scelta ha promosso una competizione al ribasso fra gli Atenei, ossessionati dalle esigenze di bilancio (pardon: di budget) e quindi dalla necessità di attrarre il maggior numero possibile di studenti.

Posta questa premessa, un filo rosso ha unito gli interventi in materia di Università adottati dai governi succedutisi dai primi anni Novanta ad oggi: l’idea di mettere in competizione tra loro gli Atenei si è risolta nella previsione di dar vita a pochi cosiddetti centri “di eccellenza” e nel sostanziale abbandono della stragrande maggioranza delle sedi universitarie, deputate a formare lavoratori specializzati privi di preparazione culturale (e perciò ancor più in balìa della precarietà del lavoro). Al di là degli orpelli ideologici e della retorica meritocratica di cui invariabilmente si ammantano, i tentativi che si annunciano da più parti di rafforzare ulteriormente i fattori di “competitività” nelle Università italiane vanno letti alla luce di questo quadro. Fermiamoci su due esempi di cui si discute in queste ore perché legati entrambi alla Finanziaria: la diminuzione degli scatti stipendiali del personale docente e l’introduzione di un meccanismo di valutazione della ricerca e della didattica.

Sul primo punto: nella sua attuale formulazione la Finanziaria prevede una riduzione del 50% degli scatti di anzianità degli stipendi di ricercatori e docenti (con buona pace delle altisonanti dichiarazioni d’intenti del programma dell’Unione). Ove tale orientamento fosse confermato, un ricercatore subirebbe nell’arco della propria vita lavorativa una perdita pari a circa 220mila euro e un professore associato perderebbe qualcosa come 150mila euro. Sembra che il governo, costretto a riconoscere l’insostenibilità della misura, sia intenzionato a presentare un emendamento che prevede una riduzione non più del 50% ma del 30% di quegli scatti, solo per gli anni 2007 e 2008, e solo per gli stipendi superiori a 53mila euro annui. Sarebbe un passo avanti. Ancora insufficiente, ma un passo avanti. Senonché i Ds hanno proposto che gli aumenti non siano più automatici ma legati “alla qualità e all’impegno delle persone”. E qui siamo alle solite. Evidentemente l’esperienza non insegna nulla, almeno quando non si è disposti a imparare.

Dietro l’ideologia meritocratica, la proposta diessina comporta due clausole perverse. La prima consiste nel fatto che, assumendo tacitamente il presupposto oggi in voga secondo il quale il pubblico impiego sarebbe popolato da “fannulloni”, essa introdurrebbe il perniciosissimo principio della differenziazione del trattamento economico tra professori della stessa fascia docente. Con il che anche l’Università si allineerebbe ai tanti settori del mondo del lavoro devastati dalla frammentazione e dalla concorrenza individuale tra lavoratori. Ma non basta. Il criterio del merito implica valutazioni. E qui siamo al secondo e ancor più grave aspetto della faccenda. Chi giudicherebbe qualità e impegno dei docenti? Risposta: una Agenzia di valutazione per l’Università. Composta da chi? Da “esperti” non di designazione universitaria né di nomina governativa. Quindi - a meno di non rivolgersi al mondo dello sport o dello spettacolo - scelti dal “mondo produttivo” (le Università essendo, com’è noto di per sé improduttive), cioè dall’impresa.

C’è bisogno di commenti? Si badi: nessuno nega che l’Università non abbia bisogno di serie valutazioni. Tutt’altro. Un corretto meccanismo di selezione è uno dei primi fondamenti del buon funzionamento di una buona Università. Ma il problema non può essere affrontato con metodi sbrigativi, né con demagogie punitive che celano talvolta interessi inconfessabili. » sbagliato e strumentale suggerire che l’Università - e più precisamente le comunità scientifiche, che includono studiosi di varia nazionalità - non sia in possesso degli strumenti e delle competenze necessari ad operare una seria valutazione della didattica e della ricerca. Vi è certo il flagello delle cordate e - a dirla tutta - delle clientele accademiche. Ma a questi problemi si dovrebbe rispondere accrescendo il rigore delle verifiche (cominciando dai metodi di formazione delle commissioni di valutazione) e non certo ricorrendo a impropri criteri “produttivistici”.

E’ ben chiaro come la proposta che stiamo discutendo rischi non già di premiare la ricerca, come con enfasi stucchevole si sente ripetere, ma di indirizzarla. E’ infatti logico aspettarsi che verrebbero sostenuti i progetti in grado di meglio garantire una ricaduta immediata e più proficui legami con il capitale e l’impresa (per fare un esempio, ricerche su nuovi sistemi di carburazione per i motori a benzina piuttosto che studi su motori ad idrogeno), o programmi di ricerca (di storia o di politica o di economia) in linea con le tendenze dominanti, piuttosto che studi che sottendano vedute critiche e prospettive di trasformazione.

Come si vede, in tanto discorrere di libertà, la vera posta in gioco è proprio la libertà della ricerca e dell’insegnamento, garantita dalla Costituzione. Ed è, per ciò stesso, il processo di privatizzazione dell’Università che, in perfetta continuità bipartisan con le politiche attuate negli ultimi quindici anni, minaccia di restare la bussola dell’intervento governativo in materia di formazione e di ricerca universitaria. Non è certo questo ciò di cui hanno bisogno gli Atenei italiani. E non è questo quel che si aspetta Rifondazione Comunista dalle scelte del centrosinistra in materia di Università.


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