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Liberazione-Fermiamo la "devolution"

Fermiamo la "devolution" Comincia a prender corpo, nella miseria culturale e ideale di un dibattito parlamentare privo di qualsiasi pathos, l'Italia della "devolution". Nascosta dalle ac...

24/09/2004
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Liberazione

Fermiamo la "devolution"
Comincia a prender corpo, nella miseria culturale e ideale di un dibattito parlamentare privo di qualsiasi pathos, l'Italia della "devolution". Nascosta dalle acrobazie semantiche della destra, ma esibita impudicamente dall'ideologia della separatezza "padana", questa devoluzione rappresenta una radicale contro-riforma dei nostri assetti costituzionali: un progetto che non realizza l'ambizione federalista, bensì la piega e la deforma in un processo materiale e simbolico di frammentazione dell'unità del Paese. Sullo sfondo si intravede un'Italia disarticolata e ferita, messa nell'angolo da un federalismo ridotto a caricatura e condito di richiami etnocentrici e razziali. Partiamo dalla domanda chiave: che cosa devolve lo Stato? Questa domanda non ammette risposte ammorbate di tecnicalità. Lo Stato devolve un'idea fondativa della società e della democrazia, abdica al proprio ruolo di ammortizzatore degli squilibri sociali e territoriali, archivia nelle parate di piazza il tema non retorico dell'unificazione di una nazione (che coincide con la costituzione del suo spirito pubblico e della sua cultura condivisa), smarrisce i doveri costituzionali di garanzia della promozione sociale, smette di frequentare quella modernità che - nella temperie del Novecento - seppe immaginare l'universalità dei diritti fondamentali. Non siamo dinanzi a mere esercitazioni di ingegneria istituzionale. E neppure alla semplice regressione al tema delle "piccole patrie", che pure di per sé è già così emblematico della qualità di una globalizzazione che integra i mercati e disintegra i territori.
Siamo dinanzi ad un disegno eversivo e dunque inemendabile, che prospetta il rovesciamento di un assetto democratico edificato da grandi culture politiche e da grandi protagonisti collettivi e popolari. Questa è la posta in gioco autentica di un processo costituente che noi intendiamo sabotare. Esso propone un drastico ridimensionamento degli spazi di partecipazione alla vita pubblica. Spoglia di senso la stessa rappresentanza democratica, svuotando l'agenda del legislatore di compiti e di competenze e mummifica la vita parlamentare in un copione di solenne inerzia e insignificanza. Stravolge nella sostanza l'equilibrio di pesi e contrappesi che hanno messo al riparo la trama democratica dai rigurgiti autoritari. Moltiplica i filtri e i muri che separano i luoghi del governo, sempre più concentrati e impenetrabili, dalle domande di massa. In questa cornice scoppia la bomba della devoluzione, che sancisce l'estinzione del principio di eguaglianza: un principio costituzionale messo in mora dalla delocalizzazione assoluta dei poteri in tema di formazione e di salute pubblica, e forse anche in tema di ordine pubblico. Ogni territorio avrà la scuola e l'organizzazione sanitaria che sarà in grado di finanziarsi e che corrisponderà alle propensioni politico-culturali di chi quel territorio governerà. Cosa diventa l'unità nazionale se viene spogliata di quel suo fondamento materiale (e non retorico) che consiste nell'unitarietà della fruizione di diritti che noi consideriamo universali e che la destra, viceversa, considera mercificabili e negoziabili secondo parametri aziendali, ideologici e confessionali?

Brilla di luci paradossali la conversione "devoluzionista" di Alleanza Nazionale. Un partito esperto di esercizi di bolso patriottismo e ricco di cimeli legati alla retorica del tricolore. Sappiamo bene quale fosse il retroterra culturale - nazionalista e mitologico - di quella idea di patria innervata nei richiami del sangue e della terra. Ma l'odierno patriottismo post-fascista, già modernizzato alla scuola dei manager e delle S. p. a., è solo la maschera con cui coprire la condivisione della scelta di spaccare l'Italia. Forse per questo Gianfranco Fini, adunando i giovani del suo partito in un discorso di rara violenza ed irresponsabilità, reinventa una patria paramilitare ed ideologica, un surrogato ruvido che possa risarcire dalla soggezione ai ricatti della tribù leghista. Ma i paradossi sono solo apparenti. Alla fine della giostra, archiviando questione meridionale e questione settentrionale, si partorisce una società frammentata e rancorosa che trova, come unica unità possibile, il comando plebiscitario di un leader e l'indiscutibile primato del mercato.

Fanno tutto questo con la goliardia di chi distilla formule istituzionali da ampolle magiche e da rituali celtici. Sono contro la storia e la civiltà del nostro Paese. E' necessario fermarli.

Nichi Vendola



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