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Le voragini della democrazia italiana

Circola l’illusione che, cambiando la forma del Parlamento, svuotando il bicameralismo, tagliando il numero dei deputati, si risolva la grande questione democratica che si è aperta nel Paese.

18/06/2013
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la Repubblica

ANDREA MANZELLA

Circola l’illusione che, cambiando la forma del Parlamento, svuotando il bicameralismo, tagliando il numero dei deputati, si risolva la grande questione democratica che si è aperta nel Paese.
Non è così. Bisogna anzi avvertire i tanti che si industriano su progetti di ingegneria istituzionale che ogni possibile costruzione – pur necessaria – sarà sospesa in aria: fino a che non si riuscirà a connettere le sue fondamenta con quello che si muove nella società che deve rappresentare.
La democrazia italiana sta male non solo perché ci sono due Camere invece di una o perché i parlamentari sono 1000 e non 500. Ma perché le si sono aperte dentro due immense voragini. Una è quella che ormai separa le istituzioni rappresentative dalla cittadinanza concreta, l’altra è quella che si è creata tra il principio di maggioranza politica e il principio di competenza tecnica.
La prima scollatura ha determinato la crisi del rapporto tra i mondi vitali (interessi, speranze, volontà) della gente qualunque e la rappresentanza collettiva che se ne ha nelle istituzioni. L’altro vuoto, quello tra maggioranza elettorale e competenze, ha portato alle varie storture: la necessità di governi tecnici senza vere basi politiche, l’egemonia di una amministrazione pubblica autoreferenziale, la formazione di gruppi parlamentari “per caso”.
Alla radice di questi aspetti di dissesto democratico vi è la fine del partito politico di massa: collettore di bisogni, organizzatore sociale, promotore e animatore delle conoscenze tecniche intorno a progetti di progresso comunitario. È accaduto che, ad un certo punto, l’andamento del mondo è stato più rapido della capacità culturale del partito politico,uscito dalla storia dell’800, di adeguarsi ai mutati orizzonti. Rattrappito su se stesso, non ha più capito niente e si è fatto sommergere dalla società com’era diventata. Il suo posto è stato preso da non-partiti, i partiti “personali”. Oppure da qualcuno che si è appropriato dell’antico marchio come bene pubblicitario utilizzabile nel mercato elettorale. In altri casi sono nati partiti elettorali programmati per “non essere partiti”. In un unico caso – quello del Pd – è sopravvissuta la trama di un insieme a cui con straordinario sforzo di memoria e di fiducia ancora si reggono “militanti” in attesa di parole e tempi nuovi di ritrovamento.
Se così stanno le cose, il problema italiano di più difficile soluzione non è la nuova conformazione della rappresentanza istituzionale ma la ricostruzione della vertebratura della società rappresentata. La validità di progetti istituzionali si deve misurare tutta sul loro grado di compatibilità con nuovi modi di essere e di esprimersi della comunità di riferimento, modi che devono essere “ordinati” per avere efficacia politica.
Come “inventare”, allora, un partito capace di ristrutturare la società? O, il che è lo stesso: come si può ristrutturare la società mediante l’opera di un partito? Come un partito (“dopo” i partiti) può ora raccogliere, coordinare e riordinare le domande di una società complicata e senza idee unificanti? E fare in modo che esse possano rivitalizzare, seguendo una linea di bisogni e di orientamenti reali e attuali, le istituzioni rappresentative?
La Costituzione usa parole forti per definire la funzione dei partiti politici (“concorrere a determinare la politica nazionale”, articolo 49). Ma non indica gli strumenti e le procedure. Il problema è dare sostanza a quella formula, e non basta trincerarsi dietro alternative che non dicono niente: partito “leggero”/partito “pesante”.
In un documento che sta suscitando dibattiti, Fabrizio Barca tenta una risposta, convincente. Per dare sostanza alla formula della Costituzione occorre fare del partito politico e dei suoi “quadri” i promotori — territorio per territorio e dal territorio locale al territorio nazionale – di nuovi modi di deliberazione democratica.
Che significa? Significa che la cittadinanza del “cittadino” qualunque non può esaurirsi, di tanto in tanto, e sempre più svogliatamente, nel momento elettorale. Essere cittadino ogni giorno vuol dire farsi carico dei problemi concreti che quotidianamente lo coinvolgono e che le istituzioni rappresentative sempre più fanno fatica a risolvere, da sole. Dalle minute questioni di prossimità (la scuola, la strada, il decoro urbano, la sicurezza del quartiere. ..) a quelle grandi della comunità più larga ( l’opera pubblica interregionale,il rapporto tra fabbrica e ambiente, la bioetica, persino: come nella Francia del débat public...).
Per risolvere questioni come queste non bastano neppure i referendum. Lavarsene le mani con un sì o un no, darla vinta, senza motivazioni, sempre e in ogni caso ad una maggioranza, può essere, semplicemente “poco democratico”. Questioni complesse hanno bisogno di una procedura ponderata: in cui le argomentazioni pro e quelle contro si misurino in condizioni di assoluta parità. Il conflitto programmato è sempre meglio del divorzio (dalla politica). Le istituzioni rappresentative, locali e nazionali, tireranno le somme finali del dibattito pubblico.
Ma è importante che questo dibattito, in ogni caso, avvenga secondo procedure “vere”, fissate in leggi e regolamenti (a cui già si dovrebbe cominciare a porre mano): che si avvalgono anche della Rete come strumento virtuale per arrivare a luoghi reali, e non come spugna assorbente e incontrollabile di ogni passaggio. Dando impulso a questo metodo, il partito rientra, attraverso i problemi, nel tessuto sociale.
La scommessa è cercare di avvicinare, di porre su basi di legittimazione più larghe e continue, le istituzioni rappresentative. Di far fruttare il capitale sociale di cui l’Italia è già così ricca (i volontari, le associazioni, i “saperi”) e di collegarlo al rarissimo capitale politico esistente. Di diminuire i forti “costi di intermediazione” e di una burocrazia pubblica che spesso risponde solo a se stessa.
Un partito che si proponesse questa molecolare opera di rianimazione politica e culturale avrebbe già, di per sé, quel che si chiama un “programma”. E anche un modo di essere.


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