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Le Università non diventino un luogo di censura

Bisogna difendere la libertà di espressione negli atenei anche da iniziative dei governi o di gruppi di studenti

24/09/2016
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la Repubblica
TIMOTHY GARTON ASH
LE UNIVERSITÀ dovrebbero essere luoghi sicuri — spazi in cui la libertà di espressione è tutelata. Quando ho iniziato a occuparmi di questo tema qualche anno fa non avrei mai immaginato che le minacce alla libertà di espressione in ambito universitario sarebbero diventate oggetto di un dibattito acceso come quello odierno nel mondo anglofono.
Il rettore dell’Università di Chicago recentemente in un messaggio rivolto alle matricole ha scritto «noi non siamo favorevoli ai cosiddetti trigger warnings (segnalazioni dei contenuti di un corso o di un testo che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni o rievocare traumi), non cancelliamo gli interventi di oratori potenzialmente fonti di polemiche e non tolleriamo che si creino spazi intellettuali “sicuri”, protetti, in cui gli individui possano ritirarsi per sfuggire a idee e prospettive in contrasto con le proprie ». E una fortissima polemica è scoppiata nel momento in cui l’Università di Cape Town ha annullato (a mio parere a torto) l’invito a tenere una conferenza rivolto a Flemming Rose, il giornalista che commissionò le “vignette danesi” su Maometto.
Il premier britannico Theresa May, in risposta a una interrogazione parlamentare, ha criticato il concetto di spazi sicuri. Ma il motivo principale per cui le università britanniche sono alle prese con la problematica della libertà di espressione deriva dall’obbligo di “prevenzione” loro imposto dalla normativa antiterrorismo varata dal ministero dell’Interno all’epoca in cui May ne era a capo, normativa che nella scandalosa versione originaria chiedeva agli accademici di farsi spie e censori dell’estremismo, anche non violento (mai adeguatamente definito). Così, come per la Brexit, May potrebbe essere a favore della libertà di espressione, oppure contraria.
Uno dei problemi che affliggono questo dibattito sta nel fatto che le valutazioni importanti, ardue, su cui dovrebbe concentrarsi sono offuscate dalle iperboli e dagli isterismi che le accompagnano come le turbe chiassose al seguito delle armate medievali. Questo dibattito usa un linguaggio tutto nuovo: trigger warnings, spazi sicuri, no- platforming (non dare la parola a persone o organizzazioni razziste o fasciste), microaggressioni. Ed è fortemente politicizzato.
Alla convention repubblicana di quest’anno in Ohio gli oratori uno dopo l’altro si sono guadagnati l’applauso della platea scagliandosi contro il “politicamente corretto”. Nessuno ha avuto bisogno di spiegare cosa intendesse: è bastato sparare quelle due parole per innescare una reazione pavloviana.
Ma quella che si potrebbe in senso lato definire la controparte è spesso il maggior nemico di se stessa. Il New York Times recentemente ha pubblicato un articolo sul discorso di presentazione tenuto alle matricole dalla responsabile per la diversità della Clark University. Tra gli esempi di “microaggressioni” la funzionaria includeva l’uso del maschile nelle espressioni generalizzate come «voi ragazzi » perché potrebbe essere interpretata come tesa a escludere le donne. «Grazie, ho capito che anch’io sono colpevole di microaggressioni», è stato il commento di una studentessa ispanica che si era ripetutamente macchiata di quello scellerato errore. Che tristezza, che ansia. Il campus si trasformerebbe in un asilo infantile puritano se gli studenti dovessero sempre fare attenzione a non turbare questo o quello.
Ma dopo aver parlato per ore di questo argomento con studenti e colleghi credo sia d’obbligo qualche distinzione. Tanto per cominciare l’azione pacifica, anche se provocatoria, di cambiare nome a edifici, statue, titoli, offerte formative e così via da parte degli studenti non minaccia in genere la libertà di espressione anzi, può rafforzarla.
Gli ex alunni possono brontolare finché vogliono contro il movimento per la decolonizzazione Rhodes Must Fall di Oxford minacciando di ritirare le donazioni, ma se l’attivismo studentesco ha contribuito all’iniziativa ammirevole dell’Università di Georgetown di fare ammenda per aver usato e venduto schiavi agli inizi dell’Ottocento è sicuramente un bene. È interessante notare che alcuni giovani ricercatori di Oxford hanno dato avvio a un dibattito simile riguardo alla biblioteca dell’All Souls College intitolata a Christopher Codrington, proprietario di schiavi.
Uno studente di Chicago difende i trigger warnings criticati dal rettore, sostenendo che un professore non deve far altro che avvertire i suoi alunni che il testo che andranno a leggere contiene ad esempio la descrizione esplicita di una violenza sessuale. In linea di principio tutto questo non si configura come violazione della libertà di espressione. I conduttori televisivi avvisano quando il servizio successivo contiene immagini in grado di turbare certi telespettatori, ci siamo abituati. Ma se si tratta delle Metamorfosi di Ovidio è assurdo, si passa il segno. Va bene vigilare sui possibili effetti terrorizzanti, ma se il brivido è moderato e giustificato, che bisogno c’è?
Lo stesso studente spiega che gli “spazi sicuri” sono zone del campus in cui «gli studenti, in particolare coloro che hanno subito traumi o si sentono emarginati, ma non solo loro, possono parlare con tranquillità delle proprie esperienze», e fa l’esempio di un centro gestito da un’organizzazione ebraica. Se si tratta solo di questo ancora una volta può essere di sostegno alla libertà di espressione: le persone possono parlare più liberamente se sentono di essere “tra di loro”, e dato che si isolano spontaneamente dovrebbero essere liberi di farlo (è interessante chiedersi se il concetto di spazio sicuro si applichi a quel genere di bianchi privilegiati che in Inghilterra chiamiamo Hooray Henrys). Ma non è questa spesso l’accezione del termine nelle università britanniche e americane. Si vorrebbe invece che tutto l’ateneo fosse uno spazio sicuro. Ho sentito spesso dire da studenti britannici che invitare un oratore fascista o transfobico nel loro college è come «accoglierlo nel soggiorno di casa ».
E’ qui che chiunque crede che la libertà di espressione in un’università sia fondamentale deve mettere dei paletti. Perché gli studenti che ad esempio chiedono di vietare a Germaine Greer di parlare in un determinato campus (per le sue opinioni sulle transgender) pensano che un gruppo di studenti abbia il diritto di impedire ad altri studenti di ascoltare un intervento che in realtà questi ultimi desidererebbero sentire. Questo
no- platforming è in realtà una censura esercitata da studenti sugli studenti. Sostenere che realmente un individuo possa non essere “al sicuro” perché in un’aula all’estremità opposta del campus una persona esprime opinioni che questo individuo considera offensive o traumatizzanti nei propri confronti significa abusare del termine.
In realtà l’interrogativo che dovremmo porci è che tipo di spazio sia l’università. E la risposta, che spiega anche in parte la confusione, non può essere che questa: vari tipi di spazio in cui dovrebbero valere criteri differenti.
Quindi nessuno dovrebbe essere obbligato a far entrare Donald Trump nel suo dormitorio o ad accoglierlo come ospite d’eccezione alla serata ispanica. Né vorrei vederlo in cattedra nella facoltà di scienze politiche né a tenere conferenze sui rapporti razziali. Ma vorrei che lo invitassero a parlare in un forum studentesco e sono certo che gli altri oratori e il pubblico gli darebbero una bella strigliata.
Penso di poter affermare che l’erosione della libertà di espressione nelle grandi università occidentali per ora è marginale e limitata ad alcune tematiche particolari.
Ma dobbiamo vigilare perché le iniziative sia degli studenti che del governo potrebbero essere la punta di un iceberg. Per questo assieme a Ken MacDonald, ex procuratore capo e attualmente preside di un college di Oxford, ho formulato una dichiarazione sulla libertà di espressione il cui testo completo è disponibile sul sito web dell’Università di Oxford ed è stato adottato formalmente da un certo numero di college, tra cui quello dove insegno.
«La libertà di espressione è la linfa dell’università», esordisce e prosegue osservando che «questo significa inevitabilmente che i membri dell’ateneo si trovano a confrontarsi con opinioni considerate da alcuni traumatizzanti, estreme o offensive. L’università deve quindi promuovere la libertà di espressione all’interno di un contesto di solida civiltà».
Agli occhi di molti potrà sembrare un’affermazione scontata, ma in certi momenti una posizione liberale fondamentale va espressa in forma esplicita e questo è uno di quei momenti.
Traduzione di Emilia Benghi
TIMOTHY GARTON ASH
LE UNIVERSITÀ dovrebbero essere luoghi sicuri — spazi in cui la libertà di espressione è tutelata. Quando ho iniziato a occuparmi di questo tema qualche anno fa non avrei mai immaginato che le minacce alla libertà di espressione in ambito universitario sarebbero diventate oggetto di un dibattito acceso come quello odierno nel mondo anglofono.
Il rettore dell’Università di Chicago recentemente in un messaggio rivolto alle matricole ha scritto «noi non siamo favorevoli ai cosiddetti trigger warnings (segnalazioni dei contenuti di un corso o di un testo che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni o rievocare traumi), non cancelliamo gli interventi di oratori potenzialmente fonti di polemiche e non tolleriamo che si creino spazi intellettuali “sicuri”, protetti, in cui gli individui possano ritirarsi per sfuggire a idee e prospettive in contrasto con le proprie ». E una fortissima polemica è scoppiata nel momento in cui l’Università di Cape Town ha annullato (a mio parere a torto) l’invito a tenere una conferenza rivolto a Flemming Rose, il giornalista che commissionò le “vignette danesi” su Maometto.
Il premier britannico Theresa May, in risposta a una interrogazione parlamentare, ha criticato il concetto di spazi sicuri. Ma il motivo principale per cui le università britanniche sono alle prese con la problematica della libertà di espressione deriva dall’obbligo di “prevenzione” loro imposto dalla normativa antiterrorismo varata dal ministero dell’Interno all’epoca in cui May ne era a capo, normativa che nella scandalosa versione originaria chiedeva agli accademici di farsi spie e censori dell’estremismo, anche non violento (mai adeguatamente definito). Così, come per la Brexit, May potrebbe essere a favore della libertà di espressione, oppure contraria.
Uno dei problemi che affliggono questo dibattito sta nel fatto che le valutazioni importanti, ardue, su cui dovrebbe concentrarsi sono offuscate dalle iperboli e dagli isterismi che le accompagnano come le turbe chiassose al seguito delle armate medievali. Questo dibattito usa un linguaggio tutto nuovo: trigger warnings, spazi sicuri, no- platforming (non dare la parola a persone o organizzazioni razziste o fasciste), microaggressioni. Ed è fortemente politicizzato.
Alla convention repubblicana di quest’anno in Ohio gli oratori uno dopo l’altro si sono guadagnati l’applauso della platea scagliandosi contro il “politicamente corretto”. Nessuno ha avuto bisogno di spiegare cosa intendesse: è bastato sparare quelle due parole per innescare una reazione pavloviana.
Ma quella che si potrebbe in senso lato definire la controparte è spesso il maggior nemico di se stessa. Il New York Times recentemente ha pubblicato un articolo sul discorso di presentazione tenuto alle matricole dalla responsabile per la diversità della Clark University. Tra gli esempi di “microaggressioni” la funzionaria includeva l’uso del maschile nelle espressioni generalizzate come «voi ragazzi » perché potrebbe essere interpretata come tesa a escludere le donne. «Grazie, ho capito che anch’io sono colpevole di microaggressioni», è stato il commento di una studentessa ispanica che si era ripetutamente macchiata di quello scellerato errore. Che tristezza, che ansia. Il campus si trasformerebbe in un asilo infantile puritano se gli studenti dovessero sempre fare attenzione a non turbare questo o quello.
Ma dopo aver parlato per ore di questo argomento con studenti e colleghi credo sia d’obbligo qualche distinzione. Tanto per cominciare l’azione pacifica, anche se provocatoria, di cambiare nome a edifici, statue, titoli, offerte formative e così via da parte degli studenti non minaccia in genere la libertà di espressione anzi, può rafforzarla.
Gli ex alunni possono brontolare finché vogliono contro il movimento per la decolonizzazione Rhodes Must Fall di Oxford minacciando di ritirare le donazioni, ma se l’attivismo studentesco ha contribuito all’iniziativa ammirevole dell’Università di Georgetown di fare ammenda per aver usato e venduto schiavi agli inizi dell’Ottocento è sicuramente un bene. È interessante notare che alcuni giovani ricercatori di Oxford hanno dato avvio a un dibattito simile riguardo alla biblioteca dell’All Souls College intitolata a Christopher Codrington, proprietario di schiavi.
Uno studente di Chicago difende i trigger warnings criticati dal rettore, sostenendo che un professore non deve far altro che avvertire i suoi alunni che il testo che andranno a leggere contiene ad esempio la descrizione esplicita di una violenza sessuale. In linea di principio tutto questo non si configura come violazione della libertà di espressione. I conduttori televisivi avvisano quando il servizio successivo contiene immagini in grado di turbare certi telespettatori, ci siamo abituati. Ma se si tratta delle Metamorfosi di Ovidio è assurdo, si passa il segno. Va bene vigilare sui possibili effetti terrorizzanti, ma se il brivido è moderato e giustificato, che bisogno c’è?
Lo stesso studente spiega che gli “spazi sicuri” sono zone del campus in cui «gli studenti, in particolare coloro che hanno subito traumi o si sentono emarginati, ma non solo loro, possono parlare con tranquillità delle proprie esperienze», e fa l’esempio di un centro gestito da un’organizzazione ebraica. Se si tratta solo di questo ancora una volta può essere di sostegno alla libertà di espressione: le persone possono parlare più liberamente se sentono di essere “tra di loro”, e dato che si isolano spontaneamente dovrebbero essere liberi di farlo (è interessante chiedersi se il concetto di spazio sicuro si applichi a quel genere di bianchi privilegiati che in Inghilterra chiamiamo Hooray Henrys). Ma non è questa spesso l’accezione del termine nelle università britanniche e americane. Si vorrebbe invece che tutto l’ateneo fosse uno spazio sicuro. Ho sentito spesso dire da studenti britannici che invitare un oratore fascista o transfobico nel loro college è come «accoglierlo nel soggiorno di casa ».
E’ qui che chiunque crede che la libertà di espressione in un’università sia fondamentale deve mettere dei paletti. Perché gli studenti che ad esempio chiedono di vietare a Germaine Greer di parlare in un determinato campus (per le sue opinioni sulle transgender) pensano che un gruppo di studenti abbia il diritto di impedire ad altri studenti di ascoltare un intervento che in realtà questi ultimi desidererebbero sentire. Questo
no- platforming è in realtà una censura esercitata da studenti sugli studenti. Sostenere che realmente un individuo possa non essere “al sicuro” perché in un’aula all’estremità opposta del campus una persona esprime opinioni che questo individuo considera offensive o traumatizzanti nei propri confronti significa abusare del termine.
In realtà l’interrogativo che dovremmo porci è che tipo di spazio sia l’università. E la risposta, che spiega anche in parte la confusione, non può essere che questa: vari tipi di spazio in cui dovrebbero valere criteri differenti.
Quindi nessuno dovrebbe essere obbligato a far entrare Donald Trump nel suo dormitorio o ad accoglierlo come ospite d’eccezione alla serata ispanica. Né vorrei vederlo in cattedra nella facoltà di scienze politiche né a tenere conferenze sui rapporti razziali. Ma vorrei che lo invitassero a parlare in un forum studentesco e sono certo che gli altri oratori e il pubblico gli darebbero una bella strigliata.
Penso di poter affermare che l’erosione della libertà di espressione nelle grandi università occidentali per ora è marginale e limitata ad alcune tematiche particolari.
Ma dobbiamo vigilare perché le iniziative sia degli studenti che del governo potrebbero essere la punta di un iceberg. Per questo assieme a Ken MacDonald, ex procuratore capo e attualmente preside di un college di Oxford, ho formulato una dichiarazione sulla libertà di espressione il cui testo completo è disponibile sul sito web dell’Università di Oxford ed è stato adottato formalmente da un certo numero di college, tra cui quello dove insegno.
«La libertà di espressione è la linfa dell’università», esordisce e prosegue osservando che «questo significa inevitabilmente che i membri dell’ateneo si trovano a confrontarsi con opinioni considerate da alcuni traumatizzanti, estreme o offensive. L’università deve quindi promuovere la libertà di espressione all’interno di un contesto di solida civiltà».
Agli occhi di molti potrà sembrare un’affermazione scontata, ma in certi momenti una posizione liberale fondamentale va espressa in forma esplicita e questo è uno di quei momenti.
Traduzione di Emilia Benghi

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