Le radici dello sviluppo
MASSIMO L. SALVADORI
Massimo L.Salvadori
In un mondo che versa in una crisi economica devastante le ricette per superarla dividono gli uni dagli altri, ma tutti concordano nell’invocare una ritrovata capacità di produrre nuova ricchezza. Potentati economici e governi cercano le chiavi per il rilancio della crescita e dello sviluppo e i Paesi indietro nella corsa le vie per raggiungere quelli che occupano le posizioni migliori. Nell’Unione Europea, ad esempio, gli Stati che sono, chi più chi meno, nei guai guardano alla Germania: modello oggetto al tempo stesso di ammirazione, invidia e anche di quella dose di risentimento che si attirano i primi della classe. Torna dunque ad essere pienamente attuale la questione di quali siano i fattori che favoriscono lo sviluppo e quali invece quelli che lo frenano o lo impediscono. Credo di poter dire che nelle presenti circostanze i governanti, e in prima fila i nostri, trarrebbero motivi di molta riflessione e stimoli assai fecondi per la loro azione dal prendere in mano (o nel riprendere, se mai qualcuno lo avesse già fatto) un libro scritto da un grande studioso quale David S. Landes e pubblicato in Italia dalla Garzanti nel 2000, dal titolo eloquente:
La ricchezza e la povertà delle nazioni. Perché alcune nazioni sono così ricche e altre così povere.
Alla ricerca di una risposta al quesito, Landes si muove da par suo nello spazio-mondo e in un tempo che dagli albori dell’età moderna giunge alla nostra. Qui non ci si può dilungare nell’enorme complessità dei suoi percorsi analitici, ma possiamo soffermarci sulle conclusioni illuminanti alle quali
egli perviene. Una società che si ponga in grado di perseguire crescita e sviluppo deve avere le seguenti caratteristiche: saper far funzionare e gestire gli strumenti di produzione e padroneggiare tecnologie avanzate; «impartire tale conoscenza e know-how ai giovani » mediante l’istruzione, l’addestramento e l’apprendistato; promuovere la competenza e il merito; offrire alle imprese adeguate opportunità potenziando iniziativa e competizione; garantire i diritti di proprietà e incoraggiare risparmio e investimento; proteggere i vari diritti individuali e collettivi di libertà contro la tirannia e il caos generati dalla corruzione e dalla criminalità; avere un governo dotato di una sufficiente stabilità, che operi rispettando regole note a tutti, onesto nel senso di combattere i privilegi nel mercato e nella società e le rendite di favore e posizione, avveduto nel contenere l’esazione fiscale, inteso ad agevolare la mobilità geografica e sociale. Il tutto in un contesto politico e civile in cui si respingano le discriminazioni di razza, sesso, religione e prevalga l’inclinazione alla razionalità scientifica.
Quello steso da Landes è un decalogo di carattere tipico-ideale: una sorta di misuratore. Ma il succo più sapido della sua analisi non è il decalogo in sé e per sé. Sta invece nell’indicazione del fattore più importante dello sviluppo, che egli afferma essere stato ed essere «istituzioni e cultura anzitutto, poi il denaro», tanto da concludere: «Sin dall’inizio, e col passare del tempo in misura sempre maggiore, il fattore decisivo si rivelò il know-how, il bagaglio di conoscenze tecniche ». Il sapere tecnico, senza il quale non vi è possibile sviluppo della produzione di ricchezza nei tempi moderni, va naturalmente collocato nel più largo contesto costituito dai tipi di mentalità, dall’etica del lavoro, dall’atteggiamento di fronte alle istituzioni, dalla qualità dell’agire politico, dal grado di rispetto delle regole della convivenza sociale, dalla capacità di iniziativa e dalla repulsione per il parassitismo e la passività. L’eminente storico studia i casi più importanti dei Paesi che ad un certo punto hanno compiuto il salto verso lo sviluppo, tra cui l’Inghilterra con la rivoluzione industriale, gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone tra Otto e Novecento. Ma l’esempio in termini comparativi più pregnante attiene alle due Americhe: entrambe ricchissime in potenziali risorse materiali, però opposte per le risorse etiche, culturali, istituzionali in conseguenza dei diversissimi nuclei originari di insediamento, l’inglese e l’ispano-portoghese con i bagagli che questi si portavano e comportavano. E da una siffatta diversità discesero vicende divergenti. Ecco dunque la conclusione: «Se la storia dello sviluppo economico ci insegna qualcosa, è che a fare la differenza è la cultura (sotto questo aspetto Max Weber aveva ragione)». Certo «la cultura da sola non spiega tutto», ma è altrettanto certo che «cultura e performance economica sono correlate, i mutamenti nell’una si ripercuotono sull’altra».
Una vera lezione ai nostri governanti di oggi e soprattutto di domani (poiché bisogna riconoscere che Monti e i suoi ministri sembrano averne appreso elementi significativi) quella di Landes. Una lezione che calza alla perfezione all’Italia, le cui condizioni confermano con la massima evidenza che chi vuole ottenere maggiore ricchezza deve puntare, appunto, su «istituzioni e cultura anzitutto»; che un Paese il quale in particolare condanni la sua gioventù ad avere un’insufficiente cultura, un inadeguato know-how e troppo scarse opportunità di ascesa sociale, perde in partenza la sfida per lo sviluppo