Le parole per dirlo
Se i migranti insegnano la loro lingua ai maestri italiani
Succede a Roma:un rovesciamento di ruoli in una scuola per stranieri.Un’esperienzadi apprendimento collettivo. Pretestop er stareinsieme e diventare più ricchi
Ella Baffoni
SI CHIAMA UNIVERSITÀ, NASCE DA UNA SCUOLA DI ITALIANO PER STRANIERI. UNIVERSITÀ DELLE LINGUE,NOME“ESAGERATO”,MAMICA POI MOLTO.FUNZIONA COSÌ.
C'è a Roma la Scuola popolare Pigneto Prenestino, al centro sociale ex Snia. E c'è l'idea di rovesciare i ruoli, una volta tanto: gli studenti della scuola escono dai banchi e salgono in cattedra. Sono loro i maestri (non improvvisati) delle lezioni che si sono tenute tra maggio e giugno nel giardino della biblioteca comunale Mameli di via del Pigneto. Cinque incontri molto affollati per “capire” lingue diverse dalle nostre persino nella scrittura come arabo, bambarà, bengali, singalese, wolof. Di cui c'è traccia nel blog della scuola (https://scuolapopolarepigneto.wordpress.com/about/).
ASSAGGIARE LA DIVERSITÀ Capire non vuol dire sapere. Vuol dire assaggiare la diversità, non solo linguistica, declinata attorno a domande elementari. Come ci si saluta in Sri Lanka? Come in Mali o in Senegal? Occasione per scoprire abitudini e usi, e per fare autocritica sui nostri, sempre più impersonali: perché è vero che non ci saluta quasi più, se non tra amici. Ancora: come sono le stagioni? E le festività? Come si scandisce il tempo? Qui, il silenzioso confronto suggerisce pensieri. E interessante è l'incontro sulla famiglia, i rapporti di parentela e i nomi dei figli e, sì, anche le differenze di genere. I giochi dei bambini, occasione per ricordare anche i nostri giochi dimenticati, quelli che si facevano con un pezzo di gesso o una manciata di ghiaia. Ogni domanda, ogni parola, una diversità. E alla fine ci si ritrova più vicini e più ricchi. Curioso è scoprire che nelle parole quotidiane l'arabo ha contaminato le coste africane occidentali, come del resto quelle italiane. Meno curioso, ma utile, riscoprire nei gesti antichi dei pastori africani quelli dimenticati dei nostri nonni contadini. La spiritualità dei riti buddisti. I precetti islamici, così simili a quelli ebrei. Un ombrellone, un tavolino, una lavagna con fogli girabili, tante sedie. La scenografia è tutta qui. Gli incontri sono densi, fluidi e sereni. Sarà perché i maestri sanno che in platea ci sono molti degli insegnanti di italiano, con i quali si è consolidata nei mesi fiducia e amicizia. Sarà perché si sono preparati molto, confrontandosi prima di ogni lezione per seguire una traccia comune. Sarà perché ad ascoltare c'è chi incontra gli stranieri solo come venditori di giornali o di mutande, al mercato. E ora è disposto a scoprire cosa c'è dietro, gli uomini oltre le braccia. E le donne: la grazia di Domindika che spiega che tra i riti di ospitalità c'è l'offerta di un bicchiere d'acqua all'ospite. E attenti ad accettarlo: berlo significa accettare di condividere il pasto. Si mangia con le mani, per rispetto alla sacralità del cibo, ma usando solo la destra, la sinistra essendo impura. Moussa è congolese e insegna il bambarà, lingua parlata in diversi paesi dell'Africa occidentale. Racconta stagioni molto diverse dalle nostre, abitudini antiche. E la storia dei Dendreni, piccoli demoni che infestano la stagione delle piogge, ad agosto. Escono alla luce della luna, piccoli come i nostri folletti, volto grigio con barba ma i piedi rivolti all'indietro. Generalmente maligni e pericolosi per i bambini: ma non tutti, ammonisce il senegalese Cheik, non si può generalizzare. Nayon e Zakir parlano della Festa della lingua, l'equivalente della nostra festa dell'Indipendenza. E' attorno al bengali, infatti, che è nato il paese dopo la guerra contro il Pakistan del 1971. Bangladesh significa, infatti, il Paese del bengali, anche se la lingua, usata da Rabindranath Tagore, è diffusa in un'area più vasta. Nelle parole c'è tutto, e molto c'è nell'incontro con gli altri. Storie, usi, fedi. E poiché questi incontri sono come viaggi – sì, viene voglia di viaggiare con questi maestri come guida – alla fine si beve un tè insieme e si mangia qualcosa, in spirito di condivisione e rispetto. Che questo è il senso di queste occasioni, crescere insieme, saperne di più uno dell'altro. Se non proprio il «comprendimento di tutte le cose», etimologia della parola Università, ci va vicino. Comprendimento, almeno, degli uomini che vivono accanto a noi. Delle loro lingue e delle loro culture.