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Le non scelte che fanno molto male alla scuola

Perdere mezzo anno scolastico, magari un anno intero può condannare intere generazioni e creare un danno economico, civile che ci porteremo dietro per anni.

06/05/2020
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Il Messaggero

Francesco Grillo
Qual è la scelta di politica economica più sicuramente efficace per un Paese che decidesse di dover assolutamente crescere per un periodo di tempo sufficientemente lungo? Incrociando i numeri dell'Oecd di Parigi che, ogni tre anni, misura le competenze matematiche, scientifiche e di lettura - dei quindicenni di settantanove diverse nazioni del mondo e quelli della Banca Mondiale sull'evoluzione del reddito per abitante, scopriamo che puntare sulla Scuola è l'investimento più sicuro a disposizione di un qualsiasi governo. Lo dimostra, del resto, la storia recente dell'Asia che ha cominciato dalle aule a scavalcare l'Occidente.
È attorno alla Scuola, dunque, che deve organizzarsi una società che immagina di avere un futuro; senza pretendere che al contrario siano i ragazzi e gli insegnanti a doversi adattare ai tempi degli uffici, delle città e delle fabbriche. E tuttavia, in Italia e non solo, sono gli studenti a pagare il prezzo più caro della pandemia. 
Confermando, del resto, scelte completamente sbagliate che per decenni ci hanno condannato in un contesto nella quale l'unica cosa che conterà, sarà la capacità di trasformare informazione in conoscenza.
Si fa fatica oggi a trovare adulti che contestino l'idea che sia la Scuola, l'unico luogo dove si può progettare un futuro diverso. Somigliano allora ad una specie di suicidio, le non scelte fatte da un Paese che più degli altri dovrebbe trovare nello studio buona parte della memoria di sé stesso. Spendiamo in pensioni (che è, tecnicamente, un sussidio per chi ha abbandonato il mondo del lavoro) quattro volte e mezzo di più di quanto investiamo in educazione, dagli asili fino alle università.
Del tutto coerente è il trattamento che abbiamo riservato alle generazioni più giovani e, dunque, a noi stessi, durante l'emergenza. Sono state le scuole le prime attività a chiudere e saranno le ultime a riaprire. Certo sono 193 i Paesi che hanno sospeso le attività scolastiche per un miliardo e mezzo di studenti e che l'Unesco sta seguendo in questo periodo difficile: ventidue (tra i quali la Danimarca) hanno già, però, ripreso le lezioni e quarantanove (tra i quali la Francia, la Germania e la Spagna) hanno annunciato le date di una possibile riapertura.
Questa scelta, se tutelante nell'immediato per l'evidente salvaguardia sanitaria, rischia però di produrre conseguenze disastrose se non accompagnata da un adeguato e perciò straordinario progetto di recupero . Rischiamo di interrompere processi formativi e di socializzazione che si riavviano in maniera molto più complicata di una catena di montaggio. Con effetti che finirebbero con il cristallizzare, ulteriormente, le diseguaglianze che stanno frantumando il nostro Paese.
Come riferisce l'Economist della settimana scorsa, in Norvegia e altri Paesi, i modelli matematici che stanno guidando le strategie di restrizione attribuiscono un costo stimato in 173 dollari - per ogni giorno di lezione persa e per ogni studente, sulla base dell'ipotesi che in un Paese fortemente digitalizzato, un allievo non riesca, a distanza, ad imparare più della metà di ciò che apprenderebbe in aula. Non meno allarmanti sono le evidenze elaborate da Brookings institute negli Stati Uniti che calcola che tipicamente durante le vacanze estive, uno studente disperda tra il 20 ed il 50% della conoscenza accumulata durante l'anno e che tale valore cresca più che proporzionalmente per ogni settimana addizionale di interruzione degli studi.
Perdere mezzo anno scolastico, magari un anno intero può condannare, dunque, intere generazioni e creare un danno economico, civile che ci porteremo dietro per anni. E, tuttavia, in Italia sembra quasi che chiudere la scuola senza mettere in atto immediate alternative didattiche - non abbia costi. Deve essere, in fondo, lo stesso riflesso condizionato che ci ha fatto usare scuola e università per finanziare tagli che, in fondo, non sono mai stati lineari perché anzi, con precisione, hanno ridotto proprio gli investimenti che servivano per darci prospettiva.
Nessun costo sembra venir riconosciuto per giorno di studio perso nei rapporti che stanno guidando la scelta di certe priorità, laddove anche l'incertezza di alcune ipotesi epidemiologiche almeno differenziate per aree geografiche- doveva incoraggiare la sperimentazione.
Se così è, dovremmo allora usare questa occasione per cominciare ad immaginare e a sperimentare una scuola che diventi più forte, flessibile. Persino creativa usando l'entusiasmo che hanno quasi tutti quelli che a scuola (studenti, insegnanti e dirigenti) dedicano buona parte della propria vita.
Per uscire dal pantano dovremmo, però, cambiare approccio. Accettare il principio generale che alle emergenze si riesce ad adattare meglio una società più flessibile che scopre capacità di trasporto pubblico nuove coordinandosi con le amministrazioni locali; che presta alle proprie istituzioni formative spazi pubblici e privati (anche alcune strutture alberghiere) non utilizzate e professionalità (in emergenza potrebbe bastare la laurea per cimentarsi in un'esperienza di grande valore) al momento non occupate; che differenzia le strategie per aree territoriali considerando, pragmaticamente, che tra di esse esistono differenze pregresse.
Ovviamente ciò comporta l'impossibilità di continuare a ritenere che l'unico luogo dove si può ancora progettare futuro possa essere irrigidito da una rappresentazione sindacale della categoria degli insegnanti che, in fondo, è la stessa che non ne ha impedito un progressivo ridimensionamento.
Una società che ha futuro si riorganizza in maniera flessibile per preservare innanzitutto i luoghi dove si costruisce e trasmette conoscenza. L'errore fatto per molti anni è presentare questa come una sfida scelta basata su logiche di efficienza manageriale: essa è invece diventa la questione morale sulla quale una comunità deve ritrovarsi.


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