Le competenze tecnologiche? I nostri prof battuti dai colleghi vietnamiti
Il dossier: «Così la Dad blocca l’apprendimento»
Gian Antonio Stella
P ossibile che i vietnamiti possano dar lezioni all’Italia su come si fa lezione? La domanda, scusate il gioco di parole, non è affatto strampalata. Il rapporto sulla Ricerca e lo Sviluppo di Observa - Annuario Scienza Tecnologia e Società 2021, a cura di Barbara Saracino e Giuseppe Pellegrini, già citato ieri, contiene infatti una tabella sulla scuola che lascia diversi interrogativi. Sulla base dei dati Ocse del dossier «Talis 2018», i docenti che dichiarano di avere imparato (sottinteso: obbligatoriamente) durante il loro percorso scolastico l’uso delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in inglese Ict, necessarie poi per insegnare a loro volta ai loro alunni come usare a scuola il computer e vari strumenti tecnologici, risultano dare risposte contraddittorie.
Ed ecco che i professori italiani delle secondarie di primo grado (quelle che giustamente Ernesto Galli della Loggia vorrebbe chiamare come vengono da tutti chiamati e cioè scuole medie) rispondono nel 52,5% dei casi che sì, erano preparati già nel 2018, ultimo dato disponibile e precedente alla pandemia, per utilizzare tutte le opportunità offerte. Una percentuale inferiore alla media Ocse, quattro punti sopra, al 56%, ma comunque superiore a quella della parte francofona del Belgio (44,7%), della Croazia (47,3) o dell’Islanda: 46,1...
Certo, quegli stessi nostri insegnanti alla domanda successiva e cioè se si sentono «preparati per l’uso delle Ict nell’insegnamento», calano bruscamente al 35,6. Consapevoli della propria insufficienza. I confronti più impietosi, però, in quel dossier in uscita per il Mulino, sono con i Paesi che sembrano aver puntato di più sul futuro. Come l’Alberta canadese dove i docenti già formati durante il percorso scolastico risultano nel 2018 il 70,5%, gli Emirati Arabi Uniti (86,5), Singapore (88,2) fino al Vietnam dove i professori spiccano su tutti con il 96,6%. Bum!
C’è da fidarsi? Boh... Dipende da come, Paese per Paese, sono state fatte le domande: un seminario di qualche giorno può essere inteso come un corso di formazione di mesi e mesi? Mah... Quel che è certo, sostiene l’Invalsi presieduto da Anna Maria Ajello sotto il titolo «In quali condizioni il Paese ha fondato la didattica a distanza?», è che «tutti i Paesi del mondo si stanno chiedendo quali siano stati gli effetti della Didattica a distanza sul livello degli apprendimenti conseguiti dagli studenti». Per dirla brutalmente: che danni ha fatto agli studenti l’interminabile lockdown (ne parla anche il Dataroom di Milena Gabanelli) delle nostre scuole?
Test e resistenze
Serve un «tampone culturale» per scoprire i danni subiti dai nostri scolari, ma c’è chi frena
Non possiamo saperlo, risponde il documento. Sappiamo però che «solo il 36% degli allievi della scuola primaria, poco meno di 4 su dieci, si è trovato ad affrontare la Dad in condizioni accettabili, quindi con buone opportunità di apprendimento. I numeri salgono un po’ negli altri ordini di scuola: circa 5 studenti su dieci nella scuola secondaria di primo grado e circa 7 su dieci in quella secondaria di secondo grado». Ma il panorama appare preoccupante, soprattutto «in corrispondenza di bassi livelli di istruzione dei genitori».
Qualche indizio potrebbe venire da quanto è successo, ad esempio, nei Paesi Bassi dove le scuole «hanno chiuso per il minor tempo» e c’erano le dotazioni migliori per affrontare la didattica a distanza (connettività tra le migliori al mondo, dotazioni tecnologiche delle famiglie tra le più elevate, incentivi rilevanti precedenti...)». Eppure, «persino in una situazione ideale come quella», i risultati dei consueti «test standardizzati censuari e obbligatori» proseguiti come ogni anno sia pure ridotti sono stati «molto allarmanti». In generale «tutti gli allievi del grado 3 si sono bloccati nel progresso di acquisizione di nuovi apprendimenti, perdendo di fatto proprio ciò che un allievo mediamente impara in circa due mesi di scuola che nel caso dei Paesi Bassi è stata esattamente la durata della chiusura delle scuole. Ma tale learning loss è del 55% superiore per gli allievi che provengono da famiglie svantaggiate». Insomma: «Se anche nei Paesi Bassi arrivati alla pandemia nelle condizioni teoriche migliori» è andata così, «possiamo immaginare cosa sia successo in Paesi come l’Italia». Conclusione: è assolutamente necessario un monitoraggio sui danni subiti in questi mesi sventurati dai nostri figli e nipoti.
Una sorta di «tampone culturale» a tappeto, attraverso i test Invalsi, sui livelli di preparazione della popolazione scolastica. Tema per certi versi simile a quello dei tamponi rinofaringei: è meglio sapere o non sapere? Avere o non avere, per quanto questi test possono essere imperfetti, una misura della realtà? Il nuovo ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha già detto: i test si faranno. Non si sa ancora, però, se saranno o meno un requisito necessario (al di là dei voti) per la Maturità. Il dubbio è sempre quello: che l’ostilità di una buona parte dei sindacati verso un monitoraggio (che potrebbe dimostrare come esistano pezzi di territorio dove la scuola, insegnanti compresi, non è all’altezza della sfida) finisca per depotenziare il più possibile la svolta. Fino a rendere quei «tamponi» culturali molto meno utili se non quasi superflui...