Lavoceinfo: Manca il coraggio all'università del PD
La proposta di legge del Pd per la riforma dell'università non affronta le questioni cruciali che davvero permetterebbero il suo rilancio
La proposta di legge del Pd per la riforma dell'università non affronta le questioni cruciali che davvero permetterebbero il suo rilancio. Poche righe sui dottorati di ricerca, senza alcun incentivo a reali sinergie tra atenei. E pochi soldi per le borse di studio di merito. Molto spazio invece è dedicato ai concorsi. I ricercatori cambiano il nome, ma non lo stipendio. Di nuovo c'è l'istituzionalizzazione del doppio binario per il passaggio alle fasce superiori della docenza. Si poteva osare qualcosa di più, magari guardando ai paesi all'avanguardia nella ricerca.
Il 22 maggio è stata resa pubblica una bozza di proposta di legge del Pd sull’ università. A una prima lettura, il testo, ambiziosamente intitolato “interventi per il rilancio e la riorganizzazione delle università”, sembra un po’ “di braccino corto”, più condizionato dalle solite prudenze di ispirazione sindacale che dalla reale volontà di innovare. Quattro esempi, tra i vari possibili.
DOTTORATI, LAUREE E BORSE DI STUDIO
Senza
dottorati di ricerca di alto livello internazionale non ci può essere rilancio dell’università italiana. Alla cruciale questione dei dottorati, la proposta Pd dedica poche righe: sono volte a introdurre incentivi fiscali e contributivi all’assunzione dei dottori da parte del settore privato. Nessun incentivo, invece, per le iniziative dirette a creare reali sinergie tra atenei in questo campo. Inoltre, si continua ad affidare l’organizzazione dei dottorati al volontariato dei docenti, e si lascia che un dottorato possa essere avviato da qualsiasi facoltà di qualsiasi università, per quanto dequalificata o priva di strutture idonee alla ricerca dei dottorandi. Ma dire che le facoltà cui si danno soldi per i dottorati vengono selezionate sulla base della loro performance nel campo della ricerca scientifica deve essere stato considerato eversivo dell’ordine costituito!
Le università italiane sono le uniche in Europa che consentono di laurearsi anche dopo venti anni, ripetere gli esami un numero infinito di volte, con appelli spesso mensili. La conseguenza è che gli studenti universitari italiani hanno il più basso
tasso di completamento degli studi in Europa, anche se aumentato un po’ dopo l’introduzione della “laurea breve”, cioè triennale. E ancora troppi completano il corso di studi dopo tantissimi anni e solo per prendere il famoso “pezzo di carta”. Per cambiare tutto questo nella proposta Pd non c’è una sola parola. Ma se questo andazzo italiano non viene cambiato una volta per tutte, l’università non può essere rilanciata, anzi, l’università non può essere tale.
Finalmente si prevede l’istituzione di
borse nazionali di merito per il diritto allo studio. Naturalmente la procedura di accesso è farraginosa quanto basta; ma la cosa più sconcertante è lo stanziamento:
100 milioni di euro per 10mila borse di studio da 10mila euro l’una per tre anni. Se si voleva dare un segnale forte, bisognava prevedere uno stanziamento ben più consistente, data la popolazione universitaria italiana. Va bene la responsabilità finanziaria, ma, perbacco, quando si sta all’opposizione si può anche alzare un po' il tiro.
LA QUESTIONE DEI CONCORSI
La riforma dei concorsi occupa la maggior parte del testo. I
ricercatori cambiano nome e diventano professori di terza fascia, ma non cambiano stipendio (nelle consuete more di una revisione generale dello “stato giuridico”), né cambia il fatto che la
tenure è praticamente garantita anche per la terza fascia. La cosa nuova è l’istituzionalizzazione del
doppio binario per il passaggio alle fasce superiori della docenza. Il primo binario è la “promozione”, riservata agli avanzamenti di carriera
interni all’ateneo, anche se con la “foglia di fico” di una valutazione “che si avvarrà di giudizi forniti da esperti italiani e stranieri esterni all’ateneo”. Non si dice, ma sembra proprio che possano essere scelti da chi bandisce tra i propri amici fidati… Il secondo binario è il “reclutamento”, riservato a “coloro che non siano in servizio presso l’università che ha emanato il bando”.
Unico vincolo: i bandi per promozioni possono arrivare a essere il doppio di quelli per reclutamento dell’anno precedente. Se non si recluta nessuno dall’
esterno non si può promuovere neanche un interno. Siamo sicuri che questo vincolo basti a superare la deriva localistica e familistica dell’università italiana? Non si prevede alcuna differenza di
status e di stipendio tra coloro che seguono il percorso interno e coloro che superano un ben più selettivo concorso internazionale. Non si prevede nessuna
tenure track per professori di secondo livello.
Aspiranti alla promozione e al reclutamento devono aver ottenuto l’“abilitazione” nazionale, cioè essere entrati in una lista aperta di docenti giudicati “abili” da una commissione che resta in carica tre anni. Senza vincoli numerici, chi se la sentirà di escludere Tizio o Caio dalla lista?
Visto che si stava mettendo mano a una riforma, per di più dall’opposizione, non si poteva osare qualcosa di più, magari guardando alle
best practices dei paesi all’avanguardia nel settore della ricerca e dell’istruzione superiore? Il disegno di legge del Pd sembra, nella sua forma attuale, il tentativo di contrapporre qualcosa, purchessia, ai tuttora non pienamente svelati disegni del governo più che un vero tentativo di riformare profondamente e coraggiosamente l’università italiana.