La vita agra degli insegnanti
Viaggio-inchiesta nel mondo dei docenti italiani. Sono 835 mila, professoresse e professori, maestre e maestri. Disegnano la scuola ma molti di loro, duecentomila, sono precari. Ostaggi di un percorso a ostacoli fatto di concorsi, graduatorie e abilitazioni che negli anni è diventato sempre più sfinente e complicato. Eroi o burocrati, appassionati o rassegnati. In prima linea nella battaglia più importante: quella per la formazione dei ragazzi
DI CARLO BONINI (COORDINAMENTO E TESTO), BRUNELLA GIOVARA (MILANO), CONCHITA SANNINO (NAPOLI), ALESSIO SGHERZA (ROMA), ILARIA VENTURI (BOLOGNA), CORRADO ZUNINO (ROMA). COORDINAMENTO MULTIMEDIALE LAURA PERTICI. GRAFICHE E VIDEO A CURA DI GEDI VISUAL
Siamo un Paese di 8 milioni e 300 mila studenti per 835 mila tra professori e maestri, di cui 635 mila di ruolo e 200 mila supplenti. Un rapporto di un docente ogni dieci ragazze e ragazzi. Sulla carta, un paradiso. Se non fosse un inferno. La scuola è la nostra croce e insieme la nostra speranza. O almeno, dovrebbe esserlo. E in qualche modo loro, i professori, i maestri – quelli per cui la scuola non finisce e non è finita mai – sono insieme parte del problema e della sua soluzione. Eroi o burocrati. Visionari o rassegnati. Innanzitutto precari. E solo a un certo punto, spesso tardi e non sempre, finalmente di ruolo. Tutti, inesorabilmente, prigionieri di un moloch che un tempo si chiamava Ministero della Pubblica Istruzione e oggi Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Dal logo con i colori dell’arcobaleno. Ma che dell’arcobaleno non ha purtroppo nulla.Come scrisse diversi anni fa un insegnante all’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: “Nonostante l’affetto dei ragazzi e la passione per il lavoro, provo amarezza, stanchezza e disillusione. La disillusione mi deriva dall’instabilità delle leggi che regolano la materia, leggi che prima danno e poi tolgono senza sapere mai bene perché”. Amarezza, stanchezza e disillusione, appunto. Eppure, pur avendo perso quello che si chiama prestigio sociale, gli insegnanti restano figure pubbliche fondamentali.
Basta vedere i risultati del sondaggio dell’osservatorio demoscopico diIlvo Diamanti di fine 2019 dove gli insegnanti (docenti di scuole superiori, medie, elementari) continuano ad essere percepiti in modo positivo da una quota significativa del Paese. Tra il 52 e il 57 per cento degli italiani. Detto questo, come segnala “Open Polis” su dati Eurostat, il nostro Paese investe l’8 per cento della spesa pubblica in istruzione. Ben al disotto della media Ue che è al 10,2%. Per parafrasare ancora Ilvo Diamanti, “forse un giorno i professori verranno aboliti insieme alla scuola per legge. Ma oggi non conviene. Oggi conviene investire nella scuola”. E nelle donne e negli uomini le cui storie raccontiamo in questo viaggio.
Innanzitutto precari
I precari sono tornati ad aumentare. Nel prossimo anno scolastico arriveranno a duecentomila e li recluteranno fino a Natale. Precari per il sostegno. Precari per l’infanzia. Precari di seconda o terza fascia. Precari “ex Tfa”. Precari “già Ssis”. Già, perché una cosa va detta subito. L’accesso alla professione docente nel nostro Paese risponde a una caratteristica apparentemente immodificabile: la confusione. Il percorso per riuscire a diventare insegnanti è strutturalmente confuso ed è fonte di confusione. A cominciare dalle definizioni degli elenchi in cui vengono collocati gli “in attesa di cattedra”. Ostaggi, da sempre, della maledizione di governi diversi che, nel tempo, e ogni volta, hanno cambiato le regole di accesso sovrapponendole le une alle altre. Con il risultato di consegnare la scuola e chi ne è la spina dorsale a una dimensione kafkiana.
Oggi esistono infatti le Gae, che stanno per “Graduatorie a esaurimento”: ereditano i precari delle graduatorie storiche sono costituite da tre fasce. Ci sono poi le cosiddette Graduatorie di istituto, dalle quali i dirigenti scolastici attingono per reclutare i supplenti e che, a loro volta, hanno tre fasce. E così, accade che sia un precario di terza fascia (Gae) il supplente che ha l’abilitazione all’insegnamento. Ma che sia un precario di terza fascia (d’istituto) anche il supplente senza abilitazione. Stesso nome – docenti di “terza fascia” - ma status e possibilità radicalmente diverse. Se ci si vuole orientare nella foresta pietrificata del precariato, si può dare un’occhiata ad alcuni dei gruppi di autodifesa in cui gli “in attesa di cattedra” si sono organizzati nel tempo.
Il “Movimento per lo svuotamento delle Gae infanzia” ha ormai una visibilità ultradecennale. Al suo interno ci sono le Gae con riserva, che rischiano a ogni sentenza del Tar di essere cancellate dagli elenchi. Un’aliquota dei docenti di terza fascia è pronta a cercare la regolarizzazione con il prossimo concorso immaginato (non fissato) tra ottobre e novembre. Dalla prova 2016, diversi candidati sono in attesa di avere la cattedra. Tra loro, ci sono i vincitori e gli idonei, che sono poi i partecipanti che non hanno vinto il concorso ma neppure lo hanno perso. E tra gli idonei di quella stessa prova si segnalano sia gli “idonei infanzia” che gli “idonei primaria”, insegnanti delle scuole elementari.
Per il ciclo scolastico dei più piccoli, però, sono in attesa anche gli idonei infanzia del concorso 2012, bandito otto anni fa dal ministro Francesco Profumo dopo tredici stagioni di vuoto. I più numerosi sono gli idonei infanzia della Campania, regione che sulla scuola poggia una parte consistente del suo welfare. Ha un largo seguito il “Coordinamento Tfa”, che accoglie coloro che hanno passato il Tirocinio formativo attivo, un anno di studio specialistico che le università italiane si fanno pagare tra i 2.500 e i 3.800 euro. Anche nell’ambito del tirocinio ci sono le sottosezioni precarie. Per esempio, si sono aggregati per difendere i loro diritti i “concorsisti Tfa sostegno quinto ciclo”. Siamo già al quinto ciclo di un tirocinio che è un treno senza orario – arriva ogni tanto, spesso senza preavviso – e imbarca molti laureati che poi non riesce a sbarcare davanti ai portoni degli istituti scolastici.
Ci sono, ancora, i non stabilizzati ma specializzati sul sostegno, e quelli con 24 “Cfu”, i crediti formativi (sempre universitari) necessari nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche. Saranno necessari per accedere ai prossimi concorsi. E poi, si agitano i laureati in Scienze della formazione primaria, che rivendicano la loro giovane età e la fresca preparazione. Negli ultimi tempi, hanno aggiunto alla dizione originaria del gruppo la variante Nuovo ordinamento.
I sempiterni Diplomati magistrali, sanati dal leghista Marco Bussetti quand’era ministro, dopo feroci scontri con le maestre collocate nelle Gae infanzia, in verità non hanno certezze di poter restare a insegnare fino alla pensione. È stata una sanatoria fallita, tra le diverse impiattate dalla politica, quella del ministro Bussetti. Infine, ci sono i “Mad”, che non significa “pazzi”. Ma “Messi a disposizione”: neolaureati che, in assenza di altre categorie con un qualche grado di esperienza, vengono chiamati alla partenza del nuovo anno scolastico e della nuova e certa mancanza di docenti. La toppa finale, i precari dei precari. Iscritti da tempo al Gruppo Facebook “Supplenti Senza Stipendio”.
Un po’ di storia
La crisi dell’istruzione italiana ha qui, nell’incertezza del ruolo, e nell’incertezza della preparazione di chi quel ruolo andrà a coprire, il suo centro. In un’analisi di “Tuttoscuola” dell’agosto 2017, si spiegava che tra i 6.123 iscritti nelle Gae della provincia di Roma per la scuola dell’infanzia, ben 4.873 docenti, pari al 79,6 per cento del totale, risultavano iscritti con zero punti di servizio: verosimilmente, non avevano mai insegnato. Andava peggio nelle scuole primarie. Su 5.356 iscritti, risultavano con zero punti di servizio in 4.916, il 91,8 per cento.
Le graduatorie per portare dentro la scuola chi non riusciva a entrare con il concorso - i bandi pubblici a singhiozzo sono una costante da mezzo secolo - sono state varate nel 1989, trentun anni fa. E hanno creato, per volontà dei partiti di maggioranza e di opposizione, con l’appoggio di tutti i sindacati, una stratificazione degli incarichi che produce frustrazione quotidiana e precariato eterno. Oltre all’impossibilità, ad oggi, di certificare preparazione, aggiornamento, capacità di un docente di tenere una classe e di portarla avanti.
Dicevamo del 1989, il varo delle graduatorie. In origine erano due. Quella di merito, riservata ai vincitori e agli idonei dei concorsi, e la Graduatoria permanente, riservata a chi conseguiva l’abilitazione all’insegnamento. La prima doveva essere rinnovata ogni tre anni e la seconda ogni stagione. Ma, di fronte ai risparmi che lo Stato si assicura assumendo docenti a settembre per licenziarli il giugno successivo, i supplenti sono diventati stanziali e le proroghe alle graduatorie la norma. In quello stesso anno, il 1989, si è introdotto il concetto del doppio canale: metà docenti entrano per concorso e metà dagli elenchi precari. Sono rimaste in vigore le Gm (Graduatorie di merito, appunto), mentre le Gp (Graduatorie permanenti) dal 2006 sono diventate Gae, con l’infelice acronimo che le pretende a esaurimento.
Un esaurimento che va avanti da 14 anni. Forse, sui cicli scolastici superiori, non siamo lontani da quel traguardo. Se ancora nella stagione 2013-2014 in questa gabbia erano stipati 154.398 docenti, a maggio scorso le Gae per le medie e le superiori ospitavano solo 8.254 precari. E nell’infanzia e nella primaria, di fronte ai molti depennamenti degli iscritti con riserva (i diplomati magistrali perlopiù), ne sono rimasti altri 28.000. Trentaseimila in tutto, cifre oggi contenute. Di fronte al numero crescente dei precari, il Parlamento aveva riaperto le Gae nel 2008 e ancora nel 2012. Da allora, e per quattro anni, nessun nuovo docente aveva potuto entrare in ruolo se non era stato inserito in quella graduatoria.
Nel 2018, la politica ha aperto un terzo canale: le Gmre (Graduatorie regionali di merito ad esaurimento). E, alla fine del 2019, nei giorni delle dimissioni del ministro Lorenzo Fioramonti, con il Decreto scuola sono nate altre cinque forme di sotto-graduatorie con nuovi supplenti in coda agli elenchi precedenti. A volte erano gli stessi supplenti che avevano solo cambiato casacca per prendere il sentiero più rapido. E così il percorso kafkiano dell’assunzione nella scuola si è fatto guerra.
Le deroghe ai concorsi per l’istruzione, d’altro canto, in Italia sono iniziate con un decreto di Vittorio Emanuele II, anno 1859: “In eccezione alla regola del concorso…”. Attraverso le Gae, tra ministro Fioroni (2006) e ministra Fedeli (2016), sono entrati in classe in maniera definitiva 215 mila docenti. Le lentezze dell’ingresso hanno portato in cattedra, spesso, docenti che avevano studiato in altre epoche, a cui non era stato chiesto di aggiornarsi. Alcuni di loro – 1.300 in tutto – si erano nel frattempo costruiti altre vite, da avvocati, da architetti, tanto da non accorgersi che, a un certo punto, il ministero dell’Istruzione li aveva immessi in ruolo. Non li hanno trovati. E loro non sono mai passati a ritirare la comunicazione.
La fatica, e la sostanziale arbitrarietà del sistema, da una parte hanno portato l’Unione europea, nel 2014, a condannare il nostro Paese per abuso di contratti a termine, dall’altra hanno messo in mostra i palesi limiti dell’ingranaggio quando anche una grande manovra di assunzione come la “Buona Scuola” del 2015 ha prodotto, su 55 mila stabilizzati nella prima fase, soltanto nove professori di Matematica per le scuole medie.
Finché c’è sanatoria c’è speranza
I precari della scuola vengono sanati a ondate. Attraverso concorsi speciali, o riservati, o “per servizio e titoli”. Dopo il tentativo, fallito, della Legge 107 di portare all’insegnamento solo chi aveva l’abilitazione e di farlo attraverso i concorsi ordinari e nazionali, la ministra Fedeli ha aperto una sentiero di straordinarietà che è stato percorso dai tre ministri successivi. Bussetti, Fioramonti e Azzolina hanno infatti continuato a rielaborare lo stesso bando per precari. Ma ancora non si è arrivati al concorso.
Aveva un senso provare a far entrare docenti in modo straordinario quando – tra il 1962 e il 1972 – gli alunni passavano da otto a undici milioni. Le prime leggi ad hoc sul precariato sono, infatti, del 1971 e del 1973: i ministri Misasi e poi Scalfaro attivarono allora corsi speciali per rilasciare l'abilitazione all'insegnamento a coloro che avevano lavorato soltanto con il titolo di studio. Nei primi Anni ’70 il precariato docente era maggioritario: raggiungeva il 52 per cento del totale. Poi, le immissioni in ruolo “per soli titoli” lo hanno dimezzato.
Nell’ultimo quinquennio, grazie anche alle assunzioni extra della Buona scuola renziana, le supplenze sono state comprese tra 82 mila e 125 mila, poco meno e poco più del dieci per cento del totale del corpo docente. Nelle due stagioni finali, però, sono tornate a crescere e per il 2020-2021 i sindacati stimano, come detto, duecentomila precari nonostante gli studenti siano 8,3 milioni, in progressiva diminuzione. Oggi, questo enorme parcheggio in attesa del posto fisso, insieme alla scarsità delle risorse, è il più grave elemento della decrescita infelice del livello di insegnamento dei nostri docenti.
La durata media degli ultimi governi italiani, e il valore a scendere dei rispettivi ministri dell’Istruzione (otto negli ultimi dieci anni), non consentono di pianificare nulla nella scuola, né di progettare un sistema di assunzione sano. Le istanze dei precari presenti nelle Graduatorie di istituto hanno prodotto un milione di domande. Aggiornare quegli elenchi, ogni volta, è un’impresa titanica.
Per dirla con Marco De Nicolò nel suo “Formazione” per Laterza: “Nel corso del tempo la scuola è diventata il luogo dove si dovrebbe insegnare tutto: dall’educazione stradale all’informatica, dall’educazione sessuale al management. La scuola ha come compito primario la formazione: insegna ad essere educati ed avere comportamenti civili, ma il suo primo ruolo rimane quello di istruzione formativa. Questa missione primaria di insegnanti e dirigenti scolastici è stata eliminata in tantissimi modi… Chi mantiene la barra del timone lungo la rotta principale assolve un compito sempre più arduo. Tra pregiudizi e stipendi sempre più bassi (nel quinquennio 2011-2015 diminuiti del 7 per cento rispetto alla media Ocse)”.
Frau Pietra
Al liceo classico Ugo Foscolo di Pavia, le femmine andavano con il grembiule nero abbottonato fino al collo. E tra loro, inizio anni Settanta, c’era Marina Pietra, che ora esce dal suo liceo – lo scientifico Volta di Milano – con lo zaino in spalla, pieno di libri. E’ una svelta ragazza di 60 anni che saluta (“ciao! guten Morgen!”) un gruppo di amici e amiche dei maturandi di giornata, per lo più in bermuda e shorts, che sembrano tutti felici, pur nella tensione dell’esame di Stato.
La prof Pietra, insegnante di tedesco in cinque classi della sezione F, ricorda molto bene i suoi anni di liceo, nel bene e nel male, e in quest’ultimo c’è una questione centrale del mestiere di insegnante, ed è il rapporto con lo studente. “Allora mancava il rispetto della persona. Era una scuola arcaica, anacronistica. Io mi sentivo poco stimata”, nonostante la bravura e i bei voti, mancava quella cosa lì, “che è un punto importante, e io spero che adesso sia cambiato per tutti, non solo per me. I ragazzi bisogna vederli individualmente, saper valorizzare di loro tutto quello che si può”.
E ci sono anche altri rimpianti: del lungo tempo passato nelle aule e nel chiostro antico del Foscolo di Pavia. “Non mi hanno fatto amare la letteratura, era solo un ripetere il Sapegno, il Pazzaglia…”, finché non ha messo piede all’università (Pavia, anno di fondazione: 1361), “e lì ho pensato: ma allora non è così brutto studiare letteratura”.
Mentre si chiacchiera sotto gli alberi dei giardini davanti al liceo, guardando la facciata littoria e corrosa che reca la data 1936, irrompe la notizia dell’annullamento dell’ultimo concorso per presidi, che corre di telefono in telefono. Non solo quello della Pietra, che peraltro non lo ha sostenuto. “Non farei mai la preside. Dovrei rinunciare alla parte del lavoro che mi piace di più. Ma lo hanno fatto alcuni miei colleghi, che ricoprono quel ruolo ormai da un anno… ma come si fa, come è possibile che succedano sempre queste cose?”. Si fa che il Tar del Lazio ha accolto un ricorso… e qualcuno avrà pure ragione, ma questo può avere un effetto esplosivo, così non funziona. E anche l’ultimo concorso per la Lombardia, è andato avanti per anni”.
Così succede, e anche chi ha una vita da insegnante più felice che infelice, come lei, non può che cogliere la stortura, l’illogico di un sistema barocco nelle sue fondamenta. “Ci sono posti vacanti, ma non c’è mai una scelta chiara sulle modalità di ingresso. Manca un sistema strutturato di tirocinio per i nuovi docenti, e il problema del precariato non lo si riesce a risolvere”. Quante cose non vanno. E la vita professionale di chi pure ci mette passione, si perde e si sfibra, talvolta si deprime. Altro che missione.
“Il termine missione non mi piace” - la professoressa è assolutamente a-retorica –, “questo è un lavoro, molto impegnativo, e dipende da come lo fai. Senza passione può diventare insopportabile. E se uno non sopporta più i ragazzi, come può succedere, diventa un lavoraccio”. Dopodiché, “ho la fortuna di essere in un’isola felice, cioè in un ottimo liceo di Milano, a insegnare a studenti che scelgono di studiare il tedesco, quindi non posso desiderare di meglio”. Un tempo, e a lungo, ha insegnato all’Istituto tecnico Pasolini, all’Ortica.
“Lì, ed era il 1985, ho visto quanto fosse importante per alcune mandare i figli a scuola”. Sono cambiate le cose? Di sicuro qui è diverso, ma pesa una difficoltà, che la professoressa Pietra vede patire in tutti gli insegnanti di tutta la scuola italiana, ed è “il mancato riconoscimento del nostro ruolo a livello sociale. Perché la difesa della scuola pubblica passa attraverso la politica, le scelte del governo, gli investimenti. Ma anche dalla società civile. Il cittadino deve condividere il progetto democratico di mettere la cultura al primo posto, in un ruolo centrale, affidandosi agli esperti della cultura, che siamo noi”.
E “se non c’è condivisione, c’è una perdita di significato che complica il lavoro del docente”, cosa che non succedeva all’inizio della sua carriera, “quando la scuola era comunque un luogo centrale per i figli”.
Lavorare poco?
Quindi, ci sono quelli che pensano “che in fondo lavoriamo poco. Che siamo un parcheggio”. Il che indigna Frau Pietra, che spiega ad esempio come sono andate le cose durante l’emergenza scuole chiuse causa Covid. “In tre giorni ci siamo organizzati, e le lezioni sono riprese subito bene”. Tre soli giorni, dal tutti a scuola al tutti a casa e “per una lezione online da 45 minuti serve un’ora di preparazione”, perché tutto vada come deve andare. Per fortuna il Volta era già organizzato, docenti e studenti da tempo dotati di mail del liceo, inoltre lei partiva avvantaggiata, “perché avevo già organizzato le classi su una piattaforma e a gennaio avevamo fatto a scuola un incontro di aggiornamento per imparare a usare Classroom”.
“E invece di farmi consegnare i compiti su carta (con il rischio che gli studenti li perdano), e invece di caricare i materiali sul registro elettronico, che è molto macchinoso, insomma era già tutto avviato, inoltre ho una pagina web su cui lavoro molto…”. Quindi, “nel giro di poco tempo ho visto il senso delle cose, e funzionava. I miei 139 studenti, tutti, hanno lavorato e partecipato”. Ma una cosa è “usare il mezzo per cose aggiuntive, un altro è lavorarci al cento per cento. Poi, come è effettivamente andata lo vedremo davvero al ritorno a scuola, a settembre”.
Il Volta ha poi distribuito un questionario per valutare l’esperienza, e una “piccola indagine personale mi ha permesso di capire che durante il lockdown un terzo degli studenti ha avuto difficoltà varie, ma tutte tecniche: la linea wi-fi sovraccarica, chi non aveva la banda larga, chi non trovava in casa uno spazio per sé, chi non aveva la webcam”. Ma tutto sommato, tirati i fili di una cosa imbastita in poco tempo, è andata.
I problemi, però, restano sempre lì, nelle aule antiquate e talvolta decrepite delle scuole italiane, fossero anche state costruite negli anni Settanta, lì sono rimaste, o quasi. E possono anche essere illuminate da corsi moderni e prestigiosi, come quello che tiene la prof Pietra nelle sue classi dove si parla solo tedesco, ma il contorno, e le storture del sistema, quelle restano intatte. “Otto anni fa abbiamo aderito al progetto internazionale Deutsches Sprachdiplom, entrando quindi in un canale preferenziale di rapporti con la Germania. Garantiamo cioè un certo standard linguistico, e perciò abbiamo materiali e sovvenzioni”.
Gli esami di certificazione sono il B1 in terza liceo, fino al B2 /C1 (il massimo) in quinta. Insomma, un corso potenziato di lingua tedesca, dove sono previste ore supplementari, con una docente distaccata dalla Germania “che collabora con noi”. Inoltre, un soggiorno in loco, a settembre (non questo settembre, per cause di forza maggiore) in un liceo della zona di Stoccarda, nel Baden-Württemberg, “zona ricca, dove hanno sede Mercedes, Bosch, Porsche…”, spiega lei, che racconta anche di come un suo studente, entrando nel liceo di Markgröningen, abbia subito chiesto “ma questa è una scuola privata?”.
Eh no, scuola pubblica tedesca, ristrutturata qualche anno fa con una cifra che supera i 20 milioni, “ma già prima era bellissima”. Qui esce tutta la sana invidia che i docenti italiani hanno per le scuole del resto d’Europa, ad esempio quelle tedesche: “E’ il concetto di un luogo in cui si sta bene, a partire dai colori per arrivare agli spazi enormi, e agli arredi. Sono scuole belle e funzionali. Belle aule, larghe e colorate. E per i docenti, tanti tavoli, con un posto fisso dove lasciare le tue cose… i libri, un pacchetto di biscotti. Ci sono le aree relax per i professori, con veri divani. E la cucina a tua disposizione”.
Aggiunge: “I miei colleghi mi prenderanno in giro per questa cosa della cucina, ma è vero che lavoriamo ore qui dentro, e non hai niente, non hai spazio”, del resto l’aula professori del Volta racconta bene come stanno le cose sul versante Italia: quattro secchi piazzati strategicamente sotto le perdite d’acqua dal soffitto, aspettando il prossimo temporale e i rari fondi della Città metropolitana di Milano. Uno spazio male attrezzato dove dovrebbero poter convivere i 90 insegnanti, e per fortuna che non si radunano tutti e novanta insieme.
E quanti abitanti ha Markgröningen? “Quindicimila, e non è il solo liceo. Lì investono molto sull’istruzione, inoltre si erano accorti che le famiglie giovani se ne stavano andando, quindi hanno rifatto un liceo”. Ma “che sia tutto rose e fiori, nella scuola tedesca, non posso dirlo. Usano un metodo interattivo, dove non è il docente che spiega i nuovi contenuti, che invece vengono fatti ricavare agli studenti in modo attivo. Quindi, non sono io a spiegare il Werther, ma do loro un testo e delle domande, da cui iniziano, in maniera più autonoma, a cercare una conoscenza”.
Lo studente è quindi più protagonista, ma “non prevedere per niente una spiegazione del docente, questo lo trovo esagerato”. Perciò “gli insegnanti tedeschi ci invidiano lo spessore delle lezioni, delle conoscenze, la possibilità di fare lezioni frontali. E il lavoro cronologico, in letteratura e storia, mentre loro procedono per aree, e generi”. Tutto diverso, “ci vorrebbe un giusto mezzo, tra il nostro frontale tradizionale e il loro sistema più centrato sullo studente”, e c’è da dire che gli italiani invidiano loro “lo stipendio, decisamente più consistente, anche se i tedeschi devono pagarsi l’assicurazione, e non hanno il Trattamento di fine rapporto”.
Un altro mondo è possibile
E qui viene bene chiedere della burocrazia, che in Italia affligge non solo la scuola, immaginando che in Germania stiano magari peggio, e scoprendo invece che così non è. “Due anni fa abbiamo avuto una visita ispettiva del progetto Dsd, che in Italia è attivo in sole ventitré scuole. Volevano verificare che fosse efficace. Erano tre funzionari, due dalla Germania, una da Roma. Io, preoccupata della mole di carte da presentare. Invece no. Solo colloqui. Con me, con il preside, con gli studenti, a tu per tu. Sono venuti ad assistere alle lezioni, si sono costruiti un’immagine della scuola. Ecco, forse è più importante vedere nel concreto la realizzazione delle cose, e parlare con le persone. Aggiungo che le verifiche sul nostro sistema avvengono invece solo sulle carte. Questo fa pensare, no?”
In effetti, fa pensare. Così come il tema del tempo-lavoro: “Da una parte c’è un orario rigido, delle 18 ore di lezione frontale, e tutto il resto è una specie di magma elastico. Da decenni si parla di far emergere il tempo sommerso, che è tanto per tutti, e che dovrebbe essere noto. Per organizzare 18 ore devi aggiungere le molte carte da compilare, i colloqui con i genitori, le riunioni, e l’aggiornamento professionale, anche questo ambiguo, lasciato a ciascuno, senza un disegno. Previsto ma non obbligatorio.
E se posso dire, io ne ho fatti tanti, e di qualità, al Goethe Institut, così come i colleghi di Inglese al British Council. Vogliamo parlare di quelli dell’Usr (Ufficio scolastico regionale)? Sono meno di sostanza, a volte trasandati, e non ben strutturati”. Dopodiché, molti dicono apertamente che gli insegnanti lavorano poco. “Ah, mi viene in mente Pietro Ichino, ha detto che il pubblico impiego durante il lockdown ha fatto vacanza… Gli ricordo che sono stati mesi di duro lavoro, un’esperienza faticosa sia emotiva che professionale a tutti i livelli, dalle elementari in su. I colleghi si sono fatti in quattro pur di non abbandonare gli studenti. Vede? Questo intendevo con il poco riconoscimento del corpo docente, veniamo trattati come l’ultimo servitore”. E sulle poche ore lavorate, “va detto e ripetuto che sono fandonie. Nel resto d’Europa fanno le ferie a blocchi, noi tutte insieme d’estate. Forse qualcuno vorrebbe mandare i figli a scuola a Ferragosto…”.
E su cosa vorrebbe subito cambiare, in questa scuola italiana disgraziata e cadente, tra le molte cose da fare lei individua “le professionali, che hanno sicuramente bisogno di essere implementate. Perché i soldi”, quei benedetti soldi che mancano sempre, “non vanno divisi su base regionale, ma bisogna individuare le scuole che hanno bisogno di investimenti”. Invece, “ogni tanto qualcuno, tipo il precedente governo, dice che bisognerebbe fare tutto su base regionale, imitando in questo il modello tedesco, che è federale, non unitario. Ma io dico: dovremmo invece investire per alzare il livello. Lo spezzettamento non ci porta da nessuna parte”.
Servono soldi, serve meno burocrazia, “visto che per sistemare un cortiletto interno ci hanno messo dieci anni. La macchina è complicata…”. Ma nella fatica quotidiana, emergono come degli sprazzi di luce, e qui si torna all’inizio, agli anni Settanta al liceo Foscolo di Pavia, quando il materiale umano (lo studente) veniva considerato poco o niente, dominava lo stile pappagallesco, ripetere e ripetere quanto l’insegnante aveva detto (non spiegato), così come all’università, nella facoltà di Lingue, di cui lei infatti ricorda due soli insegnanti memorabili: “Il professor Tomaso Kemeny di inglese, e Giorgio Cusatelli per il tedesco.
Lì iniziai a studiare questa lingua. Coraggiosamente, perché non l’avevo mai affrontata prima”, lì si è laureata con una tesi “su un noioso autore che si chiama Wolfgang Koeppen” (nel febbraio ‘81 era già fuori, con la lode e l’idea di insegnare). Così come allora, nella vita della prof Pietra oggi ci sono momenti in cui il senso del suo lavoro si concretizza in soddisfazione vera, “se è vero che il senso è quello di riuscire a trasmettere la passione per la materia, con la presunzione di veder crescere lo studente, non solo nel proprio settore”. Ma lei è una prof severa? “Do molto, chiedo molto. Un giusto scambio”.
Quindi, tira fuori dallo zaino (tecnico, perché va in montagna e soprattutto ama la scabra essenziale Val d’Ossola) la sua copia consumata di Kassandra di Christa Wolf, perché i ragazzi non leggono solo Thomas Mann e Lessing, il Werther e le Metamorfosi ma anche “la scrittrice che fa parlare le donne, con il suo sguardo diverso sulla storia di Troia, sul mondo e sulla guerra, vista dai vinti e dalle vinte. Com’è attuale, vero?”. Vero. E com’è grande il piacere di “vedere un ragazzo che esce dal pantano, e ce la fa” (così come è tremendo “non riuscire a comunicare con uno studente, quando si alza il muro…”).
E però, ricevere “certi riconoscimenti dall’estero, non solo nella mia disciplina, penso infatti alle Olimpiadi di matematica, e ottenere le certificazioni di lingua. E poi, quando succede che un ex studente ti venga a trovare, cosa che capita anche ad altri colleghi. Magari è stato all’estero, te lo vedi arrivare dopo anni e senti infine quella magica parola…”. Che sarebbe? “Grazie”.
Gallo ‘a carogna
“Scusi se ho tardato. Tra distanze, mascherine e sanificazioni gli esami durano molto. Sto facendo il presidente di commissione. Anche un po’ carogna”.
Come, “carogna”? Nel senso di Antonio Martinelli, l’indimenticato Giorgio Faletti di Notte prima degli esami, per definizione “il più bastardo professore di Lettere della storia dell’umanità”? Nicolò Gallo, 55 anni, avvocato e insegnante di Diritto e di Economia all’Istituto Casanova di Napoli per indirizzo socio-sanitario, ci ripensa. Sorride. Scuote la testa.
“Non l’ho visto, purtroppo. Sono invece molto legato a La Scuola di Luchetti, mi fece molto ridere e riflettere. Anche con amarezza”, dice il professore del film ormai di culto - con Orlando e Galiena, coppia indimenticabile tra quelle che riescono solo a sfiorarsi, perdendo ogni occasione - che racconta la lunga seduta di scrutini su cui crolla, lentamente e anche fisicamente, l’istruzione italiana. E in fondo non è un caso che Gallo sia legato a quelle verità scomode tratte dai racconti autobiografici del primo Starnone: l’opera, venticinque anni fa, era dedicata “a chi non è mai stato il primo della classe”.
Proprio come gli allievi di Gallo, 1.700 euro al mese, docente ai corsi serali per odontotecnici ed operatori socio sanitari. La platea della società che arranca e si impegna, ultimi che vogliono reagire: “Il giovane che ha bisogno disperato del diploma per aprirsi un’officina da meccanico, la ragazza madre che non ha potuto continuare gli studi, il barman che non pensava d’aver bisogno del pezzo di carta per essere assunto”. Eppure Gallo non ha il fisico del ruolo del “bastardo”, di chi attende lo studente al varco o prepara con cura tranelli (anche legittimi).
“E invece un po’ bisogna essere carogna, andare oltre la scorza, testare un percorso”. In che senso, professore? “Per esempio. Avevo fatto il commissario all’lstituto Siani del Vomero. Magari chiedo all’improvviso chi sia Giancarlo Siani, il giornalista ucciso dalla camorra nel 1985, e qualcuno non lo sapeva. Oppure, al liceo Caccioppoli, dove insegna Filosofia il fratello di Claudio Miccoli, un ambientalista ante litteram massacrato a bastonate quando aveva solo venti anni, ucciso da un commando fascista, nel ’68, qui a Napoli”.
“Esiste l’associazione che porta il nome di quel giovanissimo attivista del Wwf, schierato politicamente, e organizza anche iniziative interessanti con gli studenti. Ho chiesto loro chi fosse Miccoli. Non lo sapevano. Eppure avevano partecipato all’alternanza scuola lavoro dell’associazione a lui intitolata. Manca in alcuni, pur diligenti, la scintilla. Manca la curiosità. Andare alla fonte”.
Un maestro mi aprì al mondo
Figlio di avvocato, e del quartiere Porto, Nicolò si laurea in Giurisprudenza, “scelta quasi obbligata, grazie a mio padre perché avevamo lo studio d’avvocato in casa. Ma l’insegnamento, approfondire e trasferire quello che avevo appreso, mi affascinava. Già subito dopo la laurea, comincio a collaborare con l’Istituto di Diritto costituzionale e con maestri del calibro di Villone, Ciarlo, Scudiero”.
“Capii però che lì non c’era spazio, la borsa di studio che forse avrei meritato fu data a un collaboratore di uno studio legale importante, non mi piaceva quel sentore di baronìa: avevo la mia sfilza di 30, la laurea a pieno voti, ero un po’ secchione, e soprattutto premeva la mia passione politica a sinistra. Non contemplavo una gavetta così umiliante o un atteggiamento particolarmente docile, o servile, pur di ottenere ciò che poteva essere alla mia portata”. Però quello che l’Università rischiava di rompere, era già salvo in un incontro avvenuto tanti anni prima, alla scuola elementare, Monte di Dio, incrocio squisitamente partenopeo di ceto alto e basso, famiglie popolari e borghesi.
“A otto anni lasciai la scuola privata, entrai in quella pubblica. E dalla terza elementare, alla Oberdan, ricordo nitidamente il gusto per un luogo che era fatto di scambio tra persone diverse, la possibilità di conoscere il mondo. Mi piaceva sapere che potevamo essere un solo gruppo col figlio del portiere e quello del panettiere. Il maestro delle elementari fu decisivo. Era un uomo che aveva fatto la guerra, era stato in un campo di prigionia, ci ammoniva sulla centralità della dignità dell’uomo: ci ricordava la sua esperienza, raccontava con un velo di disagio quando era costretto usare il bagno pubblico, alla vista”.
“Si chiamava Olindo Napolitano, ero a bocca aperta quando raccontava, mi è rimasta la sua immagine di grande decoro, il suo ordinato e modesto abito grigio con cravatta, ogni giorno”. E ora quell’ex bambino non è un tipo di professore da giacca e cravatta, ma di mani nei jeans, fisico da camminatore, zainetto in spalla. E la passione per l’insegnamento “nata insieme a quella per la politica”.
“Mio padre faceva l‘avvocato, era stato in America, ne era tornato con un’idea della competizione più pronunciata. Magari tornavo dal liceo Genovesi e gli dicevo: ho avuto 8. E lui: ma dovevi prendere 10. Avrei potuto fare il magistrato, il notaio. Ma c’era in casa un’aria anti-statalista. E poi incideva l’idea gramsciana di guidare le coscienze attraverso la formazione, noi ex comunisti volevamo essere intellettuali che non si sottraevano al loro dovere”. Gallo è rimasto precario per dodici anni: laurea nell’86, le esperienze di avvocato, poi la scelta di diventare docente. Professore prima a Milano, poi a Latina, poi il ritorno a Napoli. E l’ingresso di ruolo solo nel 2007, cattedra definitiva.
“Quanti guasti: adesso introdurranno l’educazione civica, ma a costo zero, senza sapere chi use ne occupa, senza formare docenti, senza attribuirlo a professori di Diritto, senza prevedere un corso specifico, autonomo. Infatti, per insegnare Cittadinanza e Costituzione, come impone la norma, io ad esempio ho dovuto tagliare un’altra materia: sicurezza sul lavoro. Ma questo è un vizio antico. Faccio un passo indietro. Negli anni del governo Berlusconi in poi, anche la sinistra si adeguò all’impoverimento, in tutti i sensi”.“Dal 2006 in poi, furono tolte le ore di Diritto ai licei, introdotte come sperimentazione a seguito di una raccomandazione dell’Unione Europea. Ancora oggi, non si insegna Diritto ai licei, per cui oggi gli studenti vedono la Legge e l’Economia come materie ancillari, non essenziali. Poi ci incontriamo tra adulti e ci diciamo: non hanno il senso civico, non conoscono la Costituzione, neanche ricordano il nostro inno”. Tagli, solo decurtazioni e spending review. Nelle classi in cui avevo 5 ore, ora insegno solo 2 ore”.
“Al serale, oltre ad avere la riduzione della allora riforma Gelmini, si fa solo il settanta per cento dei programmi ordinari dei diurni: tutto ridotto. Oggi dispongo solo di 9 ore di Diritto ed Economia, invece delle 16 di un tempo. E quindi devo completare la mia cattedra con altra docenza. In più, dalle restanti 9 ore al Casanova che devo garantire agli allievi odontotecnici, ad esempio, toccherà a me organizzare queste lezioni sulla Costituzione, erodendo spazio ad altro”.
Ombre
“Ho insegnato a Chiaiano, quartiere a nord di Napoli, tre anni fa – prosegue Gallo - Un luogo una volta ricchissimo di prodotti agricoli d’eccellenza, poi trasformato dal sacco edilizio, dall’abbandono dei territori, in parte anche dall’insediamento delle discariche. La nostra scuola era in un contesto purtroppo molto degradato, accanto a delle palazzine in cui ci furono alcuni arresti eclatanti. Un giorno vedo ragazze e ragazzi, quindici anni al massimo, che venivano a scuola con l’auto, Smart fiammanti e ovviamente senza che avessero la patente”.
“Provai ad approfondire, mi sembrava impossibile, poi ne ebbi certezza. Ne parlai alla dirigente, 'Preside, come possiamo tollerarlo?'. Mi fu risposto che in fondo non dobbiamo fare gli sbirri o gli inquirenti. Ma io sono un professore di diritto, le ricordai, se anche volessi dimenticare quale credibilità, quale obiettivo di formazione ho, come può dimenticare la scuola che chiudere un occhio significa tapparsi anche la bocca, le orecchie, tutto?”
Gallo ha maturato uno sguardo lungo. “Ci sono famiglie che conoscono la legge, per aggirarla. Per esempio: sanno che devono rispettare un certo numero di giorno di frequenze, prima di assentarsi, così non si attivano le visite di qualche operatore dei servizi sociali. Ma la verità è che sulla dispersione scolastica, segnaliamo una sconfitta: l’inosservanza non è più neanche sanzionata, se non con un multa ridicola. Quest’anno ho insegnato all’Istituto Davide Sannino di Ponticelli, hanno dovuto fare i doppi turni prima del Covid”.
“Io mi occupavo solo di alcune ore del cosiddetto 'potenziamento', significa fare un po’ da tappabuchi, poi però ti accorgi che se instauri con i ragazzi un rapporto vero, e li motivi su una materia che li incuriosisce, diventi un punto di riferimento”. Il prof-carogna non transige. “Ho giustificato solo le mancanze della madre di un disabile, se non è riuscita a studiare la lezione. Ha più titoli sul campo, per conquistare il diploma di operatore socio sanitario, non importa se le sfuggono un giorno dei dati teorici. Quell’allieva sa sicuramente come ottenere dal Comune un assegno sociale, un permesso, un’esenzione. Posso mettere anche 6 in presenza di qualche lacuna. Se invece non si presenta, se non segue, se non mostra rispetto per la scuola, è 4”.
L’avvocato Nicolò fa capolino dietro il docente. E offre una lettura amara: “Invece il 6, per molti miei colleghi, è come il vizio di notifica in Tribunale: mette d’accordo tutti, rinvia, delega ad altri. Mentre giustificare una negatività, un debito nella formazione, è più faticoso: impone scrivere, spiegare, motivare. In doppia copia: digitale e cartacea. Così la scuola ti pone una miriade di obiettivi – conoscenza, abilità, competenze, risultati di apprendimenti. Se non li raggiungi, sei tu che devi giustificarti e argomentare”.
“Altrimenti certifichi a livello di titolo europeo, che la scuola li ha formati alla conoscenza di tutta la materia socio-sanitaria, delle due lingue, della didattica laboratoriale”. E invece, professore? “E invece non si riesce, certo non per colpa loro. Ma vogliamo un solo esempio? Gli strumenti che abbiamo nei laboratori sono di gran lunga obsoleti. E’ un po’ la retorica della scuola che non si ferma. Insopportabile, a volte”.
I ragazzi ci credono più di noi
Ma questo non ferma alcuni dei suoi “studenti” tenaci. Angela ha 21 anni, una allieva del corso serale, viene da Scampia, è riuscita a diplomarsi per rimanere stabilmente al lavoro in un grande centro commerciale. Federica, anche lei dalla periferia settentrionale, ha un talento per la fotografia. Per ora, è dipendente di un negozietto, ma sta coltivando il sogno di aprire un centro foto-digital tutto suo. “Professore Gallo, vi possiamo venire a trovare? Ci date un consiglio”.
La loro fatica quotidiana, anche solo quella di arrivare dall’estrema cintura a nord, con i mezzi pubblici in 40 minuti dall’ultima fermata della linea 1 della metro, “è una dimostrazione di impegno e di rigore che merita ogni sostegno. Sono cittadine che vengono da contesti familiari con scarse prospettive – sottolinea il loro professore di Diritto - anche un diploma va sostenuto con i soldi del tuo lavoretto da precaria. Ma quando tornano a trovarti e, per esempio, ti raccontano con soddisfazione e con gratitudine che sono arrivate al traguardo, che quel tempo è stato speso bene e hanno qualche chiave in più per realizzare il futuro che volevano, stanno ripagando la scuola e i loro operatori con energia pulita”.
“I dirigenti spesso seguono un principale obiettivo: il consenso. Mi è capitato di vedere che tutta la preoccupazione di alcuni presidi stia nell’essere attrattivi, nel facilitare ogni percorso: insomma non frapporre alcun ostacolo o fatica dell’apprendimento. Qualche dirigente ha anche teorizzato che il voto in Diritto non contava, che in fondo a 14 anni i ragazzi non riescono a comprendere un linguaggio minimamente giuridico”.
“Così mentre in Francia si studia educazione civica fin dalle elementari, noi ai primi anni di scuola superiore non possiamo insegnare le norme che regolano la nostra convivenza. E non formiamo i cittadini. C’è una scorciatoia sempre utile: prendere un 3, un 4, e trascinarlo fino a 6.”. Lei non lo fa? “No, a me pare la negazione della scuola. Che dovrebbe formare: regole, impegno, raggiungimento di risultati. O forse, no”. Cosa? “Forse sono davvero una carogna”.
Angela, l’Antigone
Della sua prima volta con gli studenti, in un istituto privato, Angela Iannuzzi, professoressa napoletana, non custodisce solo l’emozione della voce che si liberava dalla timidezza, lo sguardo ammirato dell’austero barnabita che la invitò a parlare, le facce di una classe quasi tutta maschile di fronte a una bruna, ardente “antigone” innamorata dei classici fin da adolescente. Ne ricorda tutto. Nei dettagli. “Era una riflessione sugli storici greci e romani. Partendo dai maestri”, spiega. “Più che con Erodoto, battezzato da Cicerone 'padre della storia' in quanto gli riconosce d’aver dato quel nome ?στορ?α (historia) nel Proemio, il 'metodo' nasce con Tucidide, di cui amo molto questa frase tratta dai capitoli programmatici delle sue Storie: 'Così poco laboriosa per i più è la ricerca della verità, e si volgono preferibilmente a cose pronte, a portata di mano'”. E’ qui che torna adesso Angela Iannuzzi, cinquantunenne dotata di una grazia ferrea e di un legame col suo mestiere quasi senza tempo.
“È pònos, è la dura fatica di cui parla Tucidide, la sorgente di tutto” insiste, ventidue anni dopo quella prima lezione, e il concretizzarsi del suo sogno di ragazza: diventare docente di Latino e Greco, proprio nel liceo frequentato da studentessa, l’ “Umberto” del quartiere Chiaia. L’indirizzo che per tutti è la scuola-bene di Napoli dove si formarono ragazzi del calibro di Giorgio Napolitano e Raffaele La Capria, Franco Rosi e Antonio Ghirelli, per lei è stato “approdo e scoperta”.
“Qui ho avuto la gioia di trovare insegnanti che hanno acceso e allenato in me la curiosità, lo spirito critico. Non potrò mai esprimere, ad esempio, la devozione per la potenza, l’efficacia, il calore delle lezioni del professore Raffaele Greco, apparentemente severissimo e gelido. Mi fece una profezia: tu insegnerai al mio posto. Ma non credevo si sarebbe avverata”. Qui, nei giorni cupi del lockdown e della didattica a distanza, ha vissuto “con disagio l’incolmabile distanza con gli studenti”.
“Va bene la didattica da remoto, ma alcuni di noi sono stati quasi guardati con sospetto per aver detto che si trattava di un piano B, della momentanea e necessaria transizione, non equiparabile a quello che definiamo scuola. Sostituire l’incontro di ogni giorno con un collegamento video è per me la mutilazione di tutto ciò che per me rappresenta l’insegnamento, fatto di scambio incessante con quegli sguardi e quelle reazioni che vivono tra i banchi. La pandemia è stata sofferenza anche per questo”. Un altro “sasso” sulla vita difficile della scuola. Soffocata da obiettivi, povera di risorse.
Sposata, separata, tre figli, Angela tira su con uno stipendio di 1700 euro anche Lorenzo 21enne, Luca di 17 anni e Laura di 12. “Il mio ex è un insegnante anche lui, nessuna rendita, una vita serena che però non esclude sacrifici”. In compenso, lavora gratis anche per muovere riflessioni sul teatro. “Ricorro spesso alla scena, ai testi di Eschilo o di Aristofane. Per promuovere anche la dimensione corale del loro essere protagonisti, spesso ho portato gli studenti ad assistere agli spettacoli di cartellone o abbiamo partecipato a progetti altamente formativi, come il Velia Teatro Festival, sui resti dell’antica Elea, polis della Magna Grecia, nel salernitano, una rassegna che quest’anno è minacciata dalla mancanza di finanziamenti regionali”.
Legame di sangue con Velia. “Mio padre Aniello, medico, era nato in una minuscola frazione di Elea, Terradura. Da studente classico anche lui, si mise a cercare con i fratelli e gli amici in terreni che solo molto dopo sarebbero stati definiti di interesse archeologico: trovarono delle monete, li consegnarono al sovrintendente dell’epoca. Poi, da maturo specialista mio padre ebbe alcuni archeologi tra i suoi pazienti, e si appassionava e rievocare la sua scoperta. Anni dopo, in quello stesso luogo, avrebbero ricostruito un tracciato”.
La croce dell’Autonomia
Il presente può essere torvo, e il futuro confuso se indossa la mascherina e non ha più certezze. Neanche quella di base: rientrare in classe a settembre. “Ma io e tanti docenti come me, non viviamo di nostalgia o chiusura”. Ai danni di ieri, alle riforme senza portafoglio, si sommano le incertezze da Cov-Sar-2 di oggi.
“Ogni informazione non appresa in tempo arriva su di noi come un macigno. Continui sono gli avvicendamenti di governi, le novità, le norme. Ci piombano addosso belli e fatti, una pioggia inarrestabile, senza un serio confronto con donne e uomini di scuola: che difatti non sono mai tra i decisori politici. E tutto questo produce stanchezza, assuefazione, un profondo disagio interiore. O la necessità di stare sulla difensiva anche nei confronti delle famiglie. Che, di certo, non si mostrano alleate degli insegnanti, ma, in alcuni ambienti, i principali avversari ed oppositori”.
Ecco perché l’emergenza coronavirus è, per paradosso, solo un ingrediente tra gli altri, nell’inferno di una scuola apparentemente libera e autonoma, in realtà “mai curata, mai davvero voluta più equa, più forte”. Indipendentemente dall'emergenza Covid-19, sottolinea la professoressa Iannuzzi, “le classi dovrebbero essere formate da un massimo di 15-16 allievi. Ma questo vorrebbe dire investire seriamente sulle assunzioni, puntare sulla formazione degli insegnanti e dell'intero personale scolastico”. Buone intenzioni sacrificate sull’altare della cosiddetta Autonomia.
“Ma cos’è - arringa Iannuzzi – l’Autonomia se non un bluff? Ha trasformato le scuole in migliaia di centri di inutile burocrazia inconcludente. Sta distruggendo creatività, passione e cultura degli addetti ai lavori e degli studenti. Ha moltiplicato i centri di spesa, l’inefficienza, lo stress lavoro correlato. Ha isolato i dirigenti scolastici e gli operatori in personali situazioni di sconforto e disagio professionale, che appaiono di difficile soluzione.
I docenti dovrebbero avere unicamente compiti legati a insegnamento, valutazione e comunicazioni con le famiglie. E ai dirigenti scolastici andrebbe lasciato quello di coordinamento didattico e non anche quello di gestione amministrativa, contabile con annesse responsabilità, dal civile al penale, di cose che non potranno mai essere sotto il suo diretto controllo”. Insomma, per Iannuzzi-Antigone: “La scuola non è un’azienda, non potrà mai diventarlo, questa forzatura provoca il corto circuito che la mette in uno stato cronico di sofferenza”.
Disincanto e abnegazione
Una missione che, almeno per quelli come lei, “è l’eccezione di un mestiere giusto nel tempo e nella dimensione sbagliati. Per me è sentirsi privilegiata, potendo insegnare in un classico le discipline che amo e che possono ancora svolgere una funzione educativa”. Insegnare è sempre stato essere anche un po’ padre o madre. Ma se è vero dalla notte dei tempi, in alcune periferie del mondo, e nel Mezzogiorno in particolare, “anche questo viene dimenticato da molti decisori”.
“In molte aree del Meridione – sottolinea Iannuzzi - la scuola svolge, quando le riesce, un servizio sociale di 'vigilanza e intrattenimento' di giovani e giovanissimi. Che altrimenti si disperderebbero in una vita da strada, in una deriva delinquenziale, o semplicemente in un vicolo cieco. Ma questo servizio è affidato al volontarismo e allo spontaneismo di una classe docente nel suo complesso molto variegata”. È il popolo di insegnanti che tra disincanto e abnegazione, Angela traccia idealmente in tre categorie.La prima: “I colleghi assolutamente demotivati e stanchi di eseguire continui adempimenti di natura amministrativa e burocratica che poco hanno a che fare con la propria formazione culturale”. La seconda: “Composta di persone che calcolano il proprio impegno e le energie da profondere in base ad uno stipendio fanalino di coda tra gli omologhi europei e dunque da impiegati dello Stato si limitano a trasmettere contenuti e a misurare conoscenze, per una remunerazione che non tiene affatto conto del lavoro intellettuale sommerso degli insegnanti, fatto di ore interminabili, spesso notturne per chi ha responsabilità di una famiglia”.
E la terza: “I docenti che considerano ancora il loro come un mestiere esistenziale. Quelli che hanno avuto la fortuna di incontrare i Greco, che hanno una solida preparazione, si dedicano con passione e con zelo educativo. “Ma hanno una sola strada – aggiunge Angela - dimenticare orari, stipendi, straordinari e altre rivendicazioni di tipo sindacale”. E anche “se ho la presunzione di iscrivermi in quest’ultima lista – ammette la professoressa - so bene che non è così che la scuola cresce. O che una comunità, una società si sviluppa”.
I maestri sono sempre stati le prime sliding doors. Ad Atene, appena un anno fa, se n’è spalancata una che Angela non credeva possibile. Luigi, nome di fantasia di uno dei suoi allievi di una scuola di Giugliano: veniva dall’hinterland napoletano, una delle tappe della “gavetta che però mi ha dato tanto, prima di approdare all’Umberto – racconta ancora - e mi ha fatto conoscere famiglie e allievi più inclini a non dare tutto per scontato”. Luigi era talentuoso, ma doveva aiutare i familiari nei campi.
“Lo invitavamo alle rappresentazioni dei classici e lui non veniva, alle gite e non riusciva a staccarsi dalla necessità di dare una mano alla piccola realtà agricola che serviva a sostenerli. Alla fine lo portammo con noi in un paio di occasioni, non seppe mai chi gli aveva regalato i biglietti. Un anno fa, di passaggio ad Atene, in vacanza; vedo quello sguardo che mi riporta indietro di anni. È stato bello”. Era Luigi, in vacanza anche a lui, sull’Acropoli. “Professore’, mi sono laureato, lo sapete? Un po’ tardi ma ce l’ho fatta. In Economia. Alla fine ci siete riuscita a cambiarmi la vita”.
È anche quello che le ha scritto, non molto tempo fa studente, G., diplomatosi con lusinghieri apprezzamenti. “La mia riconoscenza per il suo essere stata riferimento prima ancora che insegnante attenta, appassionata, meticolosa, il suo intento era quello di formare gli uomini e le donne del futuro, e non solo tanti piccoli “Rocci” (dizionari di Greco, ndr)”. E’ una lettera che Iannuzzi conserva con speciale delicatezza: trapela un sentimento umano tra le righe di un giovane uomo che riconosce alla sua docente: “La sua attenzione, i suoi interrogativi costanti ma delicati, il suo discutere con noi hanno sedotto il mio animo, che chiedeva conoscenza”.
Cosa ho avuto e cosa lascio
Angela guarda avanti. Ragiona sul da farsi. Riconosce una folla di simili, professori dalla vita agra, dalle risorse non tutte conosciute, o valorizzate. Ignorate, anzi, come le scuole a metà del sistema Paese. Dentro, piene di talento e energie. Fuori, cadenti o minacciate: perché pericolanti, perché incomplete, perché poco agibili, perché vandalizzate, con i lucchetti le catene e i cancelli, per evitare sabotaggi e furti. Dipende molto dagli alleati della scuola.
“Se non ci sono politiche sociali in grado di colmare il deserto e le povertà che scavano un fosso intorno alle aule, intorno alle vite dei ragazzi, come può la scuola supplire a tutto questo? Se non camminano mai insieme il Welfare e l’istruzione, la sicurezza e il disagio sociale, come evitare che i nostri istituti diventino un luogo dove ciascuno entra ed esce col suo biglietto della lotteria, perdente o vincente a seconda del posto o della casa in cui è nato?”
“Quello che ho avuto io, all’Umberto, nei miei anni di formazione, sono stati il professor Lamberto Maccioni che ci insegnava Storia e Filosofia, un poeta, un fine grecista che traduceva Euclide; il professor Greco con le sue lezioni di puro incanto, le traduzioni che ci allenavano al processo di intelligenza delle cose”. Iannuzzi ricorda che un poeta greco del Novecento da lei amato, Jannis Ritsos, ha scritto: “Là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell'uomo”. Che cosa lascia lei, ai liceali post Covid?
“Mi piacerebbe poter dire: la lotta per la Resistenza e la irriducibilità della scuola alla logica dell’ 'utile'. Dipenderà dalla dura fatica che abbiamo fatto. Per dirla con Tucidide, dal pònos: se abbiamo voluto o meno cercare la verità. Dipende da cosa passa, oggi, di noi, tra mille ostacoli”.
Signore e professoresse
Collegio dei docenti di un istituto comprensivo di Bologna, la preside si rivolge alle insegnanti della primaria: “Signore”. Poi interpella chi insegna alle medie: “Professoresse”. Un'immagine, un caso limite. Ma dà l'idea di un corpo docente, quello dei maestri, considerato di serie b nell'immaginario collettivo di una categoria già socialmente bistrattata: sono quelli che insegnano ai bambini. Eppure l'anima più vitale della scuola italiana, gli sperimentatori, gli innovatori. Sono tanti, solo che non se ne parla.
Maestri di strada, come a Napoli, maestre della rete di scuole all'aperto che sperimentano in tutta Italia lezione nei boschi (“che sapore ha la pioggia, bambini?”) e leggono le Metamorfosi di Ovidio sotto un cespuglio. Il manifesto nato a Milano lo scorso anno dai maestri Antonella Meiani e Paolo Limonta “E tu da che parte stai? Umanità vs indifferenza” ha in mente una scuola sconfinata e la felicità dei bambini. L'esperienza “Salta Muri”, con la campagna “Mille scuole aperte” di Franco Lorenzoni, immagina un'educazione sconfinata.
Partiti dalla Toscana, crescono i circoli didattici e gli istituti comprensivi “senza zaino”. Sono già più di 230. Oltre ad alleggerire le spalle degli alunni, la didattica è rivoluzionata: pennarelli condivisi, bambini aiutati ad diventare responsabili, ci si ispira al metodo montessoriano e a pedagogisti come Jerome Bruner. Molto propone il Cidi, centro di innovazione democratica, e c'è il più antico Movimento di cooperazione educativa che ha preso le mosse da Célestin Freinet, il fondatore della pedagogia popolare.
“Resiste l'idea gentiliana della scuola come luogo in cui si forma la classe dirigente, in questo contesto e in un momento in cui la scuola ha perso la sua centralità a risentirne sono soprattutto gli insegnanti della primaria – ragiona la segretaria nazionale Anna D'Auria – eppure nella formazione bisognerebbe guardare all'indietro, alla pedagogia della cura e dell'ascolto che si attua nella scuola dell'infanzia, mentre gli insegnanti della secondaria dovrebbero ispirarsi di più a quanto fanno i maestri della primaria: a contatto diretto col bambino diventano ricercatori dal punto di vista didattico, si liberano dal fantasma del programma e dal nozionismo”. E' ancora così? “Fatichiamo a portare innovazione, anche nella primaria resistono insegnanti di tipo tradizionale, lo evidenziano i risultati delle prove Invalsi, dei test Ocse-Pisa, i dati sulla dispersione scolastica. Va costantemente costruita una scuola che abbia come finalità la rimozione degli ostacoli”. Ovvero, la scuola della Costituzione.
I maestri che fanno la differenza
Dove c'è il contesto giusto i maestri possono fare la differenza. L'ha fatta Mauro Presini, 62 anni, cresciuto al tempo dei decreti delegati e delle rivendicazioni dei diritti. “Allora si aveva la spinta ideologica di voler migliorare la società e io sono diventato maestro perché nel mio piccolo volevo provare a trasformare la scuola”. E dunque la classe che diventa il luogo della libertà di espressione in cui i bambini sono protagonisti.
Presini insegna alla primaria Bruno Ciari di Cocomaro di Cona, in provincia di Ferrara, è conosciuto per il suo blog, coi bambini ha fondato il giornale La gazzetta del Cocomero. “Va restituita loro l'idea che possono influire sulla realtà, la scuola deve essere un ascensore sociale. Noi maestri? L'importanza sociale degli insegnanti cresce con l'ordine di scuola, è un dato di fatto. Io rovescerei questa piramide, abbiamo molto da imparare da quelli dell'infanzia. Insegnare non è trasmettere nozioni, cresci con i tuoi alunni con l'idea che si può imparare divertendosi e insieme, crei comunità, pensiero critico, cittadini. Un'idea di scuola che sta resistendo, anche se a fatica. Anche il nostro mestiere corre il rischio di diventare impiegatizio”.
Di didattica attiva parla Daniela Lo Verde, preside dell'istituto comprensivo Falcone, allo Zen di Palermo. “Molte insegnanti alla primaria rendono indimenticabile la scuola con esperienze concrete, fanno venire la voglia di tornare tra i banchi ”. Chi s'inventa l'orto, chi con la didattica a distanza ha fatto salti mortali durante il lockdown. L'istituto di Lozzo Atestino, che comprende le scuole di Vo’ Euganeo, guidato dal preside Alfonso D’Ambrosio, 42 anni, premiato nel 2016 come miglior docente innovatore, ha insegnato a tutta Italia come fare lezioni online anche ai più piccoli. Imparare scoprendo è la chiave di Francesca Muraca, 39 anni, maestra all'istituto Thouar Gonzaga di Milano.
“Dobbiamo fare le scale in geografia? Metro alla mano, misuriamo l'aula”. Lei sperimenta coi bambini anche la classe capovolta (flipped classroom): ci si esercita in aula su contenuti letti a casa. “Perché faccio la maestra? Per passione. L'innovazione da una parte contagia, dall'altra ancora non è diffusa come vorremmo anche perché le insegnanti stanno invecchiando e sfido chiunque a seguire classi con 25 bambini a una certa età, molte colleghe sono stanche e le capisco”.
Ma quanti sono i maestri, meglio, le maestre d'Italia? Quelli di ruolo in cattedra quest'anno sono 238.292, solo 8.487 uomini. Una professione tutta al femminile e piuttosto agée: 90.606 sono over 54, altrettanti (89.676) hanno tra i 45 e i 54 anni, solo 7.438 hanno meno di 34 anni. Lo stipendio? Inferiore a quello dei colleghi delle medie e delle superiori, a fine carriera i maestri arrivano a uno stipendio intorno ai 1.700 euro netti al mese, a metà raggiungono i 1.400.
L’ultimo rapporto Education at glance 2019 curato dall’Ocse parla di un salario iniziale, in Italia, per chi insegna alla primaria di 30.403 dollari, contro una media Ocse di 31.276. Alle medie e superiori la retribuzione in ingresso per un professore è di 32.725. Dopo 15 anni di esperienza in Italia i docenti della primaria arrivano a 36.604 dollari (contro una media Ocse di 42.078 dollari) quelli delle medie a 39.840 e delle superiori a 40.952. Dal 1999 è richiesta la laurea per insegnare alle elementari. “Nonostante risentano di un riconoscimento sociale inferiore, i maestri hanno più forte l'idea del loro ruolo educativo e hanno una collocazione più chiara nel rapporto con le famiglie” osserva Elisabetta Nigris, docente di innovazione didattica alla Bicocca di Milano.
Nel suo ruolo di coordinatrice dei corsi di laurea in Scienze della formazione primaria, quelli che sfornano i maestri, ha perso la battaglia delle immissioni in ruolo di migliaia di insegnanti col solo diploma magistrale.Un caso scoppiato due anni fa che ha riportato agli onori delle cronache la scuola primaria dimenticata a se stessa: maestre col solo diploma magistrale entrate nelle graduatorie ad esaurimento, il canale per arrivare alla cattedra di ruolo, a colpi di ricorsi, espulse da una sentenza del Consiglio di Stato, riammesse con proroghe. La Lega si giocò la campagna elettorale. Un'ondata di insegnanti esperti, in quanto ad anni di insegnamento, dove dentro c'era anche però chi aveva rispolverato il vecchio diploma magistrale per ottenere un posto sicuro nella scuola. Con buona pace della preparazione necessaria. Contraddizioni, storture del sistema di reclutamento.
“Mediamente abbiamo insegnanti più preparati dal punto di vista del titolo culturale e professionale, ma la battaglia sul titolo necessario con quelle insensate immissioni in ruolo l'abbiamo persa, ne va della qualità dell'insegnamento – conclude Elisabetta Nigris – il problema in realtà è che è la scuola ad essere stata dequalificata”. Anche la primaria, fiore all'occhiello in Europa, è stata colpita dai tagli negli negli ultimi 20 anni: via alle compresenze diffuse in classe, tempo pieno ridotto, scarso investimento nella formazione sul campo. Il problema, concordano i più, è portare a sistema le innovazioni, fare in modo che le punte più avanzate contagino e dilaghino. Per non perdere nessuno tra i banchi: non uno di meno, ricordava don Milani con la sua scuola di Barbiana.
La scuola che serve
Per chiudere questo viaggio, sono di grande aiuto le parole di Tullio De Mauro che fu per una brevissima stagione (2000-2001) ministro dell’Istruzione con Giuliano Amato. “Serve un governo che metta al primo posto la scuola. Non solo in termini di denaro ma in termini di cura e di attenzione. E poi serve un gran lavoro degli insegnanti, che senza essere santi ed eroi come Mario Lodi o Don Milani, devono fare in modo che gli alunni più bravi servano da sostegno e indirizzo ai meno fortunati”.
Servono gli insegnanti, sì. Ma De Mauro per primo riconosceva quanto fosse complicato oramai rivolgersi a un gruppo così frammentato, diviso, alienato da graduatorie, sigle, concorsi, manutenzione e aggiornamento quotidiano di piani scolastici sempre più efferati e specialistici. Piano di apprendimento individualizzato, piano di integrazione degli apprendimenti, piano educativo individualizzato, programma operativo nazionale, piano dell’offerta formativa etc. Una miriade di sigle e acronimi che come spiega Viola Ardone, insegnante di liceo e autrice del Treno dei bambini, rischiano di essere “i balbettii monosillabici di una scuola che ha perso le parole e che nel tentativo di catalogare, monitorare, misurare, finisce con lo smarrire il senso del linguaggio e , più in generale, il proprio ruolo”.
Un ruolo che oggi resta sulle spalle degli insegnanti. Criticati, offesi, alle volte distratti, non tutti aggiornati, prigionieri di sindacalismi rivendicativi, ma anche l’ultima trincea della passione e dell’educazione presente e futura. Tullio De Mauro sugli insegnanti e i diversi livelli di precariato spiegava: “I loro sono casi che gettano luce su quanto la scuola ha saputo fare per limitare i danni dell’analfabetismo secolare e della attenzione perversa, mutatasi poi in disattenzione per l’istruzione nel nostro paese. E tutti i casi gettano luce su quanto resta da fare, precari o no, insegnanti e no, per creare nel paese un livello decente di formazione e cultura attraverso la scuola e nella scuola”.