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Non si può dire che il confronto sulla scuola stia attraversando una fase di particolare vivacità. Anzi, per dire le cose come stanno, non di può proprio dire che ci sia un confronto. Chi ha la responsabilità del sistema educativo interviene per modificarne le condizioni di funzionamento ostentando un ottimismo al cui confronto il Candide di Voltaire sembra appartenere ad un circolo di scettici radicali. Non sembra tuttavia che tale atteggiamento sia condiviso dai beneficiari dei cambiamenti in atto: gli insegnanti lamentano il peggioramento continuo delle condizioni in cui sono costretti a svolgere la loro attività, gli studenti avvertono l’incertezza delle prospettive che li attendono, le famiglie hanno poco da aggiungere alla balia televisiva per impegnare l’enorme quantità di tempo che la scuola rinuncia a considerare parte del suo compito educativo.

O, almeno, così vanno le cose nella grande maggioranza dei casi. Certo, ci sono ragazzi che sanno di poter contare sul sostegno della famiglia per raggiungere una collocazione sociale in linea con le loro aspirazioni e ci sono famiglie che possono prescindere dall’offerta educativa pubblica per far compiere ai figli esperienze capaci di promuoverne lo sviluppo culturale e di soddisfarne gli interessi. Per gli insegnanti non c’è scampo: il loro destino professionale dipende dalla rilevanza sociale che si riconosce al sistema educativo. Ciò che conta non sono le soluzioni praticabili da minoranze favorite, ma il ruolo dell’educazione nel perseguire un’idea di progresso che si presenti come una sintesi delle aspirazioni alla base dei cambiamenti culturali, politici, economici degli ultimi secoli. In altre parole, la scuola può cambiare, anzi deve cambiare, perché l’educazione – come ogni altro aspetto della vita sociale – assume determinate caratteristiche nello spazio e nel tempo.

Ma il cambiamento ha senso se è in grado di prefigurare una risposta più adeguata alle esigenze che si esprimono nella società. Ne deriva che esso, in quanto risponde a domande che si collocano in uno scenario diverso da quello consueto, non può che presentarsi come innovazione. Ed è ciò che sta accadendo in molti paesi che condividono con l’Italia la tradizione educativa europea. Ma non è ciò che sta accadendo in Italia, ove il cambiamento, invece di assumere caratteri innovativi, li sta assumendo regressivi: è ciò che emerge se si osserva che la tendenza, che altrove si è affermata nella seconda metà del Novecento, a consentire nella scuola più ampie esperienze, che integrino e consolidino gli apprendimenti di tipo sistematico, è contraddetta nel sistema scolastico italiano. Nelle nostre scuole l’attività simbolo delle pratiche tradizionali d’insegnamento, la lezione, esaurisce il tempo disponibile per l’educazione. Finite le ore previste per le lezioni, la scuola chiude, nel senso fisico come in quello metaforico, i suoi battenti. I quadri orari che regolano l’attività delle scuole devastate dagli interventi dei governi che si sono succeduti dall’inizio del secolo (né si intravedono segnali di cambiamento), hanno indicato, al ribasso, i tempi a disposizione. Malgrado la riduzione degli orari, gli esegeti di Viale Trastevere si sono affrettati ad affermare che non era una scuola minimalista quella di cui avrebbero fruito gli allievi, ponendo a confronto, per sostenere l’incauta asserzione, il numero delle ore di lezione nelle nostre scuole con quello delle scuole di altri paesi.

Ma, se è vero che gli dei accecano chi vogliono perdere, tra tali paesi è stata compresa la Finlandia, ossia il paese che ha realizzato un sistema scolastico i cui risultati svettano nelle comparazioni promosse dall’Ocse. Forse, in un eccesso di zelo, si volevano precostituire le condizioni per un’ulteriore riduzione dell’orario scolastico, per portarlo alla pari con la Finlandia, ma si è completamente trascurato di menzionare quale sia l’orario, non delle lezioni, ma di funzionamento delle scuole finlandesi. Avrebbero dovuto, quei sapienti interpreti della realtà educativa, dire che in Finlandia la scuola è sempre aperta, che l’orario delle lezioni è una parte, neanche prevalente, del tempo che gli allievi trascorrono a scuola, che quei fortunati ragazzi – oltre a partecipare alle lezioni – fanno tante altre cose, e possono farle perché le scuole dispongono di laboratori ben organizzati a attrezzati nei quali l’apprendimento diventa esperienza. Possono lavorare in gruppi, sviluppare progetti, esercitarsi nell’uso di altre lingue, compiere esperienze di recitazione, formare gruppi musicali, dedicarsi al giardinaggio e all’orticultura, organizzare feste, cucinare e via seguitando: la scuola è il punto di riferimento per la formazione del profilo culturale e sociale d bambini e ragazzi.

Se qualcuno pensa che il modello finlandese non possa essere preso in considerazione perché troppo legato a condizioni di contesto particolarmente favorevoli, si ricreda: la Finlandia ha superato nell’ultima decade del 900 condizioni di grave disagio nell’educazione di bambini e ragazzi, e l’ha fatto sviluppando un disegno educativo di ricostruzione delle condizioni di vita, delle relazioni sociali e delle esperienze culturali degli allievi. A quei ragazzi ben forniti di denaro che intristivano nei bar è stata offerta la possibilità di compiere le loro esperienze in un ambiente qualificato, quello appunto costituito dalle scuole. La grande crescita della scuola finlandese è stata il risultato di una modifica sostanziale del rapporto tra le esperienze effettuate a scuola e quelle esterne a essa ed è stata resa possibile non dalla modesta consistenza della popolazione (come qualcuno afferma per ridurre la capacità di attrazione del modello), ma dalla capacità del progetto educativo di corrispondere alle esigenze degli allievi e delle loro famiglie.

Quel che i soliti esegeti non hanno o non vogliono capire è che si ha uno sviluppo della scuola ed ha senso promuovere una riforma quando si dispone di un progetto che non riguarda solo aspetti organizzativi del funzionamento della scuola, ma prefigura un’immagine della società. Senza bisogno di richiamare i sistemi altrui, basta riflettere sullo sviluppo della scuola italiana dopo il 1861: il credito sociale della scuola è stato elevato fin quando l’intento dell’educazione non si esauriva nel trasferire un corredo di conoscenze dalle generazioni più anziane alle più giovani, ma era soprattutto quello di cambiare le condizioni della vita quotidiana. Vale la pena di ricordare che la scuola è stata protagonista non solo della trasformazione culturale della popolazione, che è stata sottratta a una condizione di quasi generale analfabetismo, ma anche di cambiamenti profondi nella cultura materiale, nei modi di esistenza, nelle relazioni sociali. Promuovere l’educazione significava impegnarsi per realizzare qualcosa di diverso e di alternativo rispetto all’esistente. L’educazione ha avuto successo quando ha saputo affermare con maggiore coerenza un’immagine della popolazione che non coincideva con le rappresentazioni consuete: in altre parole, il fattore dinamico dello sviluppo educativo non è l’esistente, ma ciò che si può pensare che sia e si vorrebbe che fosse. Sotto questo aspetto, la logica dell’educazione è la stessa dell’utopia: quest’ultima è un non luogo, un paese che non c’è, così come non ci sono gli scenari che costituiscono l’approdo dell’educazione (uso di proposito una parola collegata alla simbologia del viaggio, comune nelle rappresentazioni classiche dell’utopia).

È vero comunque che ciò che non c’è non necessariamente è preferibile a ciò che c’è: nella storia dell’utopia c’è stata una lunga fase in cui la negazione dell’esistente equivaleva ad affermare una diversa e migliore qualità della vita umana, ma anche una fase più recente in cui il non luogo ha coinciso con lo sviluppo coerente di fenomeni involutivi che investono la cultura e la vita sociale. Moro o Bacone proponevano modelli di progresso della società la cui coerenza era assicurata dal rovesciamento delle rappresentazioni quotidiane. Zamjàtin, Huxley o Orwell hanno seguito procedimenti simili, ma nei quali il rovesciamento dava consistenza alle ansie proprie di società nelle quali si è smarrita l’idea di progresso o la si è limitata ad una nozione fastosa e ideologica della tecnologia. Che sia quest’ultima l’utopia di riferimento per le riforme in atto nel sistema scolastico italiano? Il tempo ci offrirà elementi per rispondere. Ma, intanto, bisogna diffidare dei riferimenti deformati ai quali i responsabili (?) del sistema scolastico ricorrono per giustificare ciò che stanno facendo. Come diceva Bacone, non si deve credere qualcosa solo perché l’afferma l’Autorità: la verità è figlia del tempo. E lo dico con timore, perché non vorrei trovarmi nella situazione descritta da Evgenij Zamjàtin in Noi, il romanzo che ha fornito la prima rigorosa interpretazione dell’utopia negativa del Novecento.