La valutazione: abbassare i toni, avviare una riflessione
di Benedetto Vertecchi
da Tuttoscuola, giugno 2014]
Molti degli argomenti che sono stati utilizzati a favore o contro le rilevazioni nazionali sui livelli di apprendimento degli allievi sono tutt’altro che nuovi. Si tratta, infatti, per lo più della ripresa di aspetti del dibattito sulla valutazione che già, in tempi non molto lontani, avevano suscitato una viva attenzione. Nell’ultimo decennio del Novecento si erano, infatti, manifestati due diversi orientamenti, il primo favorevole a compiere rilevazioni su tutta la popolazione scolastica, l’altro a operare su campioni.
Alla base del primo orientamento c’era la convinzione che la valutazione fosse di per sé in grado di promuovere percorsi virtuosi di miglioramento della qualità dell’educazione scolastica. Le famiglie avrebbero potuto disporre di criteri obiettivi per preferire le scuole accreditate di risultati migliori. Gli insegnanti più capaci avrebbero tratto un vantaggio professionale dal successo dei loro allievi. Gli stessi allievi avrebbero potuto giovarsi del credito riconosciuto alle scuole frequentate (sempre, ovviamente, che si fosse trattato di scuole valutate positivamente). Si sarebbe promossa la concorrenzialità fra le scuole assegnando risorse aggiuntive e quelle che avevano ottenuto valutazioni più positive. Nel Regno Unito l’attuazione di un programma valutativo ispirato a tali criteri aveva comportato lo sviluppo di istituzioni specializzate per la verifica dei livelli di apprendimento, come la Qualifications and Curriculum Authority (QCA). Per l’accertamento della conformità al modello desiderato del funzionamento delle scuole. Era questa la funzione dell’Office for Standards in Education (Ofsted), che vi provvedeva attraverso ispezioni periodiche. Un complicato sistema di esami, svolti in massima parte tramite prove strutturate, doveva assicurare, fin dai primi anni del percorso scolastico, che determinati traguardi fossero effettivamente conseguiti. Un’importante istituzione di ricerca (la National Foundation for Educational Research) assicurava il sostegno conoscitivo necessario per svolgere nel modo corretto le diverse operazioni.
Di segno opposto erano le scelte operate in Francia. Si riteneva, innanzi tutto, che gli atteggiamenti inquisitori, difficili da evitare in operazioni che, per essere svolte sull’intera popolazione, avrebbero dovuto mobilitare legioni d’ispettori e richiedere che nelle scuole si svolgessero un numero enorme di prove, non avrebbero favorito il crearsi del clima di fiducia e di collaborazione necessario per ottenere risultati attendibili. Non era un mistero per nessuno che alla rilevazione di dati sull’universo degli allievi corrispondeva il manifestarsi di atteggiamenti di diffidenza, che potevano condurre ad alterare i dati. Segnali in tal senso non erano mancati neanche in un contesto tradizionalmente rispettoso delle regole, come quello inglese. Ma ciò che spingeva la Francia a seguire una via divergente era la convinzione che non fossero le scuole migliori a dover trarre vantaggio dall’attività valutativa, ma quelle che per i risultati ottenuti mostravano di incontrare maggiori difficoltà. Le rilevazioni campionarie presentavano il duplice vantaggio di non indurre diffidenze e di individuare, con una spesa relativamente modesta (nel Regno Unito i costi della valutazione erano enormi) le aree che avrebbero potuto trarre giovamento da una più intensa attività educativa (Zone d’éducation prioritaire).
I due casi sui quali ci siamo soffermati, anche se riferiti a situazioni molto diverse e a scenari non più attuali, mostrano che la valutazione è considerata uno strumento necessario per qualificare le decisioni relative allo sviluppo dei sistemi educativi. Dipende dagli orientamenti politici dei governi che si succedono alla guida dei diversi paesi se, volta a volta, s’intraprende la via delle rilevazioni sull’universo o quella delle analisi campionarie. A orientamenti conservatori corrisponde, in linea di massima, un’attività valutativa condotta sull’universo, e il contrario se le scelte perseguono intenti di progresso. In Italia, quando la contrapposizione tra le due vie caratterizzava il dibattito nel Regno Unito e in Francia, la necessità di valutare l’intera popolazione era sostenuta dallo schieramento di forze che si apprestava, nel 2001, ad assumere il governo del paese. Va notato, tuttavia, che c’era una differenza sostanziale fra il dibattito che si svolgeva in Italia e quello in atto altrove:
- per cominciare, il nostro sistema scolastico aveva perseguito, nella seconda metà del Novecento, intenti essenzialmente espansivi, che avevano portato la grande maggioranza dei bambini e dei ragazzi a fruire di educazione formale per un numero consistente di anni. Traguardi simili altrove erano già stati conseguiti;
- non c’era in Italia, come in Francia o nel Regno Unito, un’organizzazione che avesse la responsabilità di sviluppare la ricerca educativa. Di conseguenza sulla consapevolezza dei problemi prevalevano le suggestioni esercitate dalle esperienze compiute altrove;
- gli atteggiamenti culturali, anche quando esprimevano intenti di innovazione, erano in larga misura poco sensibili alle esigenze dello sviluppo scolastico. Basti pensare alla diversa attenzione rivolta (dalla narrativa, dal cinema, dalla televisione, in generale dai mezzi per la comunicazione sociale) ai problemi educativi in Italia e negli altri due paesi che stiamo prendendo in considerazione;
- le proposte corrispondenti a pratiche inconsuete (com’erano buona parte di quelle valutative) davano luogo ad atteggiamenti ambivalenti, di rifiuto pregiudiziale o di accettazione acritica. Al rifiuto è stata fatta corrispondere l’attenzione per gli aspetti qualitativi della valutazione, e all’accettazione quella per gli aspetti quantitativi. Purtroppo si trattava di uno schematismo che si è fin troppo radicato e continua a manifestarsi;
- l’attenzione verso la ricerca educativa in generale, e quella valutativa in particolare, ha riguardato limitati gruppi di ricerca fino all’ultimo decennio del Novecento, quando l’influenza dell’Ocse (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) sugli indirizzi di politica economica e sociale dei paesi membri ha affermato una chiave interpretativa volta, in una prima fase, alla comparazione dei sistemi scolastici e, in una fase più recente, alla globalizzazione degli intenti educativi.
Se per alcuni decenni la valutazione è apparsa strettamente collegata all’innovazione didattica e al crescere di una consapevolezza critica nei confronti delle iniziative che s’intraprendevano per superare determinate difficoltà, l’esasperazione da parte dell’Ocse delle comparazioni tra i sistemi scolastici ha finito con l’imporre come criterio unico di giudizio la posizione ottenuta nelle graduatorie internazionali. E, dal momento che tale posizione dipende dai risultati che gli allievi conseguono in prove strutturate, il criterio valutativo ha finito con l’assumere un valore didattico (teaching to the test). Non ci si preoccupa più che gli allievi, attraverso un processo che si protrae attraverso l’infanzia e l’adolescenza e che, con sempre maggiore evidenza, si sta estendendo all’età adulta, acquisiscano un profilo culturale aperto a varie dimensioni della conoscenza, ma di porli in condizione di fornire prestazioni adeguate alle prove delle rilevazioni Ocse. Quel che è peggio, l’addestramento degli allievi a rispondere alle prove strutturate non si è limitato al tentativo di ottenere migliori posizioni nelle comparazioni internazionali, ma è stato esteso alle rilevazioni a carattere nazionale, che si avvalgono di metodologie e di strumentari definiti per calco. Né potrebbe essere altrimenti, considerando lo stato agonico della ricerca educativa in Italia.
Le conseguenze di uno sviluppo anomalo dell’attività valutativa si manifestano su vari piani, da quello linguistico (parlare di quiz o di indovinelli è un modo di manifestare discredito abbassando il registro verbale) a quello metodologico (certe procedure per l’elaborazione dei dati non sono considerate necessarie per accrescere la consapevolezza sui fenomeni, ma per affermare interpretazioni subalterne e dommatiche). Quel che è certo è che dal dibattito in corso non possono derivare apporti utili per lo sviluppo dell’educazione se non ci si impegna nella ricerca di nuovi modelli interpretativi e di nuove soluzioni. Mi limito a proporre un esempio di ciò che sarebbe utile fare e non si fa: perché non valutare quale sia l’impatto dell’uso di risorse digitali sulla memoria di bambini e ragazzi? E sullo sviluppo della loro competenza verbale? Credo che per gli interventi sul sistema, come per la qualità delle decisioni didattiche, queste informazioni sarebbero molto più utili dei punteggi ottenuti in prove strutturate (e, oltre tutto, potendo essere i dati rilevati su campioni, costerebbero molto di meno).