La triste parabola dei dottorandi e dottori
Netto il calo numerico degli ultimi anni. Aumentate invece le difficoltà, tra le tasse da pagare e il reddito che non c'è
Corrado Zunino
La quinta indagine su dottorandi e dottori italiani - figura ambigua dell'università italiana a cavallo tra la più alta forma di studentato e la prima forma di ricerca professionale, ambiguità che spesso si ritrova nel resto d'Europa - ci dice che l'Italia accademica, o meglio ancora governativa, si è dimenticata di loro. Che nel 2012 erano 34.629, oggi sono presumibilmente di meno e restano stretti, spesso schiacciati, tra le tasse da pagare agli atenei che frequentano per un reddito che non hanno. Questo, specificamente, accade per i vincitori di concorso senza borsa, un terzo del totale che è senza finanziamento per il lavoro ottenuto. Tra l'altro, quindici università tassano anche i dottorati con borsa.
I dottorandi italiani sono l'ultimo esempio di meritevoli senza merito riconosciuto. Già nel 2012 l'Italia, pur quinta in Europa per numero di post-doc, posizione fisiologica per un paese da sessanta milioni di abitanti, era distaccata in maniera netta dalle altre nazioni europee comparabili: la Francia, al terzo posto, aveva più del doppio dei dottorandi italiani (70.581); il Regno Unito, secondo, quasi il triplo (94.494); la Germania, prima, 208.500. Nel 2010 eravamo addirittura quarti nella classifica assoluta. Le cose sono peggiorate, dice il rapporto senza quantificare come. Basta prendere i numeri in un altro verso, più cogente, e si scopre che l'Italia sempre nel 2012 era terzultima nel rapporto tra dottorati e popolazione, peggio solo Spagna e Malta, ultima. Nel 2012 avevamo sei dottorati ogni 10 mila abitanti, nel 2014 sono diventati 5,6, nel 2016 si stima saranno 4,5. La Finlandia ne ha 37 ogni diecimila. In Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia sono meno di tre.
Secondo la Carta europea dei ricercatori, firmata nel 2005 da tutti i rettori italiani, chi fa ricerca post-laurea - un dottorando, appunto - è un professionista. Ma l'ibrido post-doc italiano da una parte versa contributi all'Inps come un lavoratore (contributi che non consentono comunque di accedere al sussidio di disoccupazione) e dall'altra paga le tasse all'università come uno studente. La borsa di studio per un dottorato non si ottiene, come nella prima fase universitaria, perché si è in corso nel viaggio verso la laurea, si hanno crediti sufficienti o un reddito basso, ma perché si supera un concorso.
La borsa vinta, ecco, dà al dottorando italiano 1.040 euro netti al mese: è la remunerazione minima, ma, assicura Alessio Rotisciani, il responsabile della comunicazione dell'Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, l'introito minimo e quello medio da noi coincidono. All'Università Bicocca di Milano si arriva a 1.200 euro mensili.
La scala in discesa dei finanziamenti pubblici si vede bene con i posti banditi da tutte le università italiane: nel 2014 furono 12.338, nel 2015 (trentesimo ciclo) solo 9.189, il 25 per cento in meno. Questo è un derivato del decreto 45 del dicastero Profumo. Se si arretra il paletto del confronto si scopre che nel 2008 - prima della riforma universitaria di Mariastella Gelmini - vennero banditi quasi sedicimila posti, praticamente il doppio di quelli odierni. I corsi attivati nelle ultime tre stagioni sono passati da 1.557 a 903, con una decrescita del 42 per cento.
L'indagine Adi mostra come il sistema universitario pubblico garantisca il 96,6 per cento di tutta l'offerta dottorale italiana. E, quindi, ci dice anche come i privati stiano lontani da queste forme di finanziamento alla ricerca. Le prime dieci università di Stato, con borse che coprono dal cento per cento all'89 per cento della spesa, sono nell'ordine: Normale di Pisa, Sissa Trieste, Magna Graecia Catanzaro, Verona, Iuss Pavia, Teramo, Milano, Sant'Anna di Pisa, Imt Lucca e l'Università per stranieri di Siena. Sette regioni italiane soltanto garantiscono il 74,5% dell'offerta e tra queste, al Sud, c'è solo la Campania.
Dottorarsi, nonostante le fatiche e le miserie retributive, serve comunque. L'Istat ha certificato che nel 2014, a quattro anni dal conseguimento del titolo, il 91,5% dei dottori di ricerca lavorava. A sei anni, lavorava il 93,3%