La Stampa: Tutti bocciati prof e allievi. Scuola da rifare
Le indagini relegano l’Italia a fanalino di coda “Giovani incapaci di risolvere qualsiasi problema” “Non tutto è da buttare, ma ora ricominciamo dai laboratori”
RAFFAELLO MASCI
Una scuola che non serve a niente. Detta in maniera meno brutale, con le parole dell’Ocse: incapace di indurre una cultura del «problem solving», tutto quello che si impara non si è poi in grado di utilizzarlo nella vita e nell’esperienza. E’ la più grave carenza del nostro sistema scolastico, associata ai mali di cui ieri, su «La Stampa», Luca Ricolfi ha fatto una impietosa disamina: incapacità degli allievi di leggere e di esprimersi, di esercitare la memoria e il dono di sintesi, di concentrarsi e di valutare.
La situazione, in effetti, trova riscontro oggettivo nelle tre indagini Pisa-Ocse sui livelli di apprendimento dei ragazzi italiani, realizzate negli ultimi 10 anni (a intervalli di tre anni l’una dall’altra: l’ultima è del dicembre scorso). Non solo - dice l’Ocse - i quindicenni italiani (questa la classe di età indagata) non sanno né leggere né esprimersi nella loro lingua, non solo non conoscono la matematica e in generale le materie scientifiche, ma mancano - soprattutto - della capacità di «problem solving», cioè non hanno alcuna attitudine a fare proprie le conoscenze acquisite e ad applicarle ai problemi che la vita e l’esperienza pongono. Una preparazione la loro (quando c’è) essenzialmente teorica e libresca.
«E’ questo un problema annoso della scuola italiana - dice Claudia Donati, responsabile del settore processi formativi del Censis, e quindi osservatrice costante della scuola italiana -. Il passaggio da conoscenza a competenza è stato sempre il tallone d’Achille del nostro sistema. In questo senso il professor Ricolfi ha messo il dito nella piaga. Tuttavia va detto che la scuola italiana è viva, e negli ultimi 15 anni ha anche cercato di dare risposta alle sue carenze più evidenti nel raffronto internazionale: per esempio ha cercato di attivare un sistema di valutazione, realizza progetti pilota, fa laboratori, alternanza scuola-lavoro e valorizzazione dell'istruzione tecnica attraverso rapporti col mondo produttivo. Con la Gelmini sta cercando anche di darsi un maggiore rigore, che vorrebbe essere anche disciplina nei metodi di lavoro. Ma si tratta di elementi sganciati l’uno dall’altro, segmenti che, se non coordinati rischiano di essere episodici».
Peraltro non esiste una «scuola italiana», ma molte realtà diversificate sul piano qualitativo. Specie dopo l’introduzione dell’autonomia scolastica (1998) i piani dell’offerta formativa presentati da ogni istituto consentivano di far emergere esperienze di grande rilievo. «Abbiamo quindi una realtà frastagliata, con punte avanzate proprio nella direzione indicata da Ricolfi - dice Antonio Petrolino, presidente dei presidi romani - ma una buona scuola non basta da sola a sortire risultati. Sulla preparazione dell’allievo incidono molto altri due fattori: la famiglia di provenienza e il territorio. In sostanza uno studente, anche dotato, dà risultati molto diversi se proviene da una famiglia colta piuttosto che da una in cui l’unico libro è l’elenco del telefono. Allo stesso modo un buon liceo non è lo stesso, se si trova a Bolzano o a Scampia». Dunque non basta una buona scuola se non ha apporti di pregio dalla società.
«Allo stesso modo - aggiunge Claudia Donati - dobbiamo considerare che la formazione di un giovane non avviene più solo nella scuola, ma moltissimo, ormai, attraverso i canali informali della trasmissione del sapere: Internet, le tecnologie digitali, le tv anche tematiche, il sistema dei mass media, eccetera. Questo significa che nei processi educativi occorre saper gestire questa massa enorme di soggetti. E se le nuove generazioni hanno le carenze segnalate da Ricolfi, è a questa pluralità di fonti di istruzione che dobbiamo rivolgerci. La scuola dunque conta molto, ma la famiglia e il gruppo sociale in cui si vive, almeno altrettanto».
L’importante poi, secondo Petrolino «non è tanto tornare a insegnare, quanto tornare a imparare. Nella scuola italiana l’accento va messo molto di più sull’output piuttosto che sull’input. Dobbiamo, cioè conoscere meglio gli studenti e il loro mondo e valutare il lavoro docente per i risultati che produce su di loro». In tutto questo non sarebbe male se la scuola si potesse giovare di un periodo di tranquillità: «Quello che manca - dice il presidente dell’associazione presidi, Giorgio Rembado - è un progetto formativo chiaro, che punti a determinati obiettivi di fondo e li persegua nel tempo: non si può continuare a dire tutto e il contrario di tutto, sconfessando periodicamente quello che si diceva pochi mesi prima. Non è possibile che si pensi ad una scuola diversa ad ogni cambio di maggioranza».
ROMA
Luigi Berlinguer, parlamentare europeo del Pd, ex ministro dell’Istruzione, ed ex professore. Che ne pensa dell’analisi del professor Ricolfi?
«La trovo piuttosto cupa. Anche se il suo è un testo di grande interesse».
Non le piace questa idea di una scuola che recuperi un suo rigore?
«Io credo che il vero rigore sia dato da un codice condiviso».
Che invece non c’è?
«A me pare che la scuola non sia più in grado di sollecitare l’interesse dei ragazzi».
E come si recupera questo rapporto?
«Intanto col porre l’accento sull’apprendere invece che sull’insegnare. Dobbiamo, cioè, puntare a che l’allievo si interessi, studi e impari in profondità, non solo teoricamente».
Si fa presto a dirlo. La via quale sarebbe?
«Iniziare dall’esperienza. Non dalla lezione, non dalla teoria. Ma semmai dal laboratorio, dal fare. Utilizzando in questo quanto di positivo può venire dalle nuove tecnologie. Mentre qui siamo rimasti alla scuola dell’Ottocento con la cattedra e i banchi, la lezione frontale, il docente e il discente. Allora si andava sul calesse e si comunicava gridando da una collina all’altra. Ora ci sono i jet e si comunica via Skype. Immutati sono rimasti solo la cattedra e i banchi».
E’ sicuro che l’esperienza generi interesse?
«Certamente ed è anche dimostrato dal vissuto della scuola elementare italiana, dove si svolgono molte attività creative. Poi dopo, alle superiori, tutto questo scompare, perché ci portiamo ancora appresso l’impostazione idealista per cui si deve iniziare dalla teoria e non dall’osservazione della realtà».
Occorre rivedere la gerarchia dei saperi?
«Assolutamente sì. Ma quando si parla della scuola si parla di tutto - l’aggiornamento, l’organizzazione, la valutazione, i nuovi esami e quant’altro - ma mai di questo».
Faccia un esempio.
«Non possiamo fare finta che non esistano nuove fonti di informazione e di formazione. Le tecnologie sono entrate nella vita dei ragazzi, introducendo anche nuovi metodi e nuovi approcci al sapere».
Più pratica, quindi, più laboratori?
«La conoscenza deve cominciare dal contatto con la realtà e non con la lezione teorica. E’ importante saper parlare prima di sapere cosa sia il dittongo. Questo può stimolare nei ragazzi un desiderio di conoscere, che poi approderà anche ad un inquadramento teorico, beninteso, ma come punto di arrivo e non come inizio».
Siamo sicuri che funziona, professore?
«Abbiamo di fronte l’esperienza della scuola finlandese, che l’Ocse considera la migliore scuola del mondo: questo tipo di metodo funziona».
Una proposta finale, prego.
«Due. Centralità della conoscenza sperimentale. E che si introduca la pratica della musica in tutte le scuole».
Per conquistare il suo 100 e lode al liceo scientifico «Volta», Valentina Carosso ha passato sui libri tre ore al giorno. Dalla terza alla quinta è andata così. E siccome studia composizione al Conservatorio, due-tre ore le ha anche dedicate alla musica. In settembre si iscriverà a Scienze della formazione primaria e, a giudicare dal suo percorso, continuerà a non essere in linea con le affermazioni del professor Ricolfi sugli studenti. Che in gran parte condivide.
Ricolfi sottolinea la difficoltà dei giovani ad esprimersi correttamente per iscritto. Cosa ne dici?
«Ho compagni che fanno ancora errori di ortografia. Mi sembra grave che alla fine della quinta liceo non si sappia scrivere bene in italiano».
Non andrebbe meglio nell’«arte della parola»...
«Molti usano frasi corte perché non riescono a collegare i concetti. Nella vita di tutti i giorni è diverso, ma nelle interrogazioni, quando non conoscono bene la materia con il suo linguaggio specifico e devono arrampicarsi sui vetri, è tragico. Usano termini vaghi e i professori si innervosiscono, li interrompono per farli ragionare. Poi, c’è chi ripete il libro parola per parola...».
Ricolfi dice che si è persa la capacità di concentrarsi e gli errori logici sono all’ordine del giorno.
«Vero anche questo, ma non per tutti: almeno 4-5 in una classe di 20 sono bravi. Gli altri non capiscono che per studiare bisogna lasciar perdere telefonino, iPod, messanger e tv. Se ogni cinque minuti ti distrai non concludi niente».
Incapaci di autovalutazione?
«Molti non sono in grado di migliorare o non vogliono».
Allenati a superare test, ma non a padroneggiare una disciplina?
«Nei licei, i test a risposta multipla sono poco usati».
È vero che si dimentica in pochi anni ciò che si è imparato in ambito scientifico-matematico?
«Ho difficoltà a ricordare storia, latino. Forse se avessi fatto il classico sarebbe stato il contrario. Credo sia sempre capitato, non è una novità».
Gli studenti di oggi considerano Internet «la memoria»?
«Ciò che noi studiamo è tutto nel Web e nel Web siamo abituati a verificare ogni dubbio. È la memoria cui si può ricorrere comunque, poi sta ad ogni persona usarla bene. E’ probabile che oggi ricordare sia meno importante. Io però ho avuto una maestra che ci faceva studiare le poesie ed è stato un utile allenamento».
Scarsa concentrazione, ma capacità di fare più cose insieme?
«Nello studio serve concentrazione. È improbabile mandare sms ed essere attenti alla lezione».
Ottima capacità di far funzionare ogni oggetto tecnologico, ma senza capire com’è fatto?
«Può valere per le ragazze, ma tra i maschi la passione per l’elettronica c’è davvero».
Grandi navigatori nella Rete, ma esposti a credere alle bufale?
«Sì, ho visto portare ricerche con dati veramente assurdi».
Riconosci la tua generazione nella descrizione di Ricolfi? Una generazione a cui, a forza di facilitazioni, è stata spacciata per istruzione un’«allegra infarinatura»?
«Nella scuola di oggi chi vuole imparare può farlo, ma chi non è interessato può comunque finire con facilità. Il ritorno degli esami di riparazione ha spaventato, poi la gente si è accorta che sono abbastanza semplici e si è tranquillizzata».
Ci sono stati insegnanti particolarmente importanti per te?
«Il prof di matematica di quest’anno, senza il quale non avrei superato lo scritto così come l’ho superato. E poi la maestra delle elementari, quella delle poesie a memoria».
Il problema della scuola italiana non è tanto la scarsa qualità della preparazione degli studenti, ma la mancanza di personalizzazione del percorso di studi. «Quel che servirebbe è un paradigma molto semplice: valorizzare il 100% della popolazione giovanile sviluppando al meglio per ogni individuo le caratteristiche in cui eccelle». Parola di Giuseppe Bertagna, ordinario di Pedagogia all’università di Bergamo e membro della commissione di riforma durante la reggenza del Miur da parte del ministro Moratti. «Non mi sorprende, come ha scritto il professor Ricolfi sulla “Stampa”, che la maggior parte dei giovani che esce dalla scuola e dall’università sia sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità - ragiona Bertagna -. Ciò avviene perché in Italia ancora vige un assetto scolastico introdotto all’inizio del Novecento, in una società dove c’era solo il 2% della classe dirigenziale». Insomma, la scuola ora produce «ignoranza», aggiunge rafforzando quanto sostenuto ieri dal professor Ricolfi e due giorni dall’oncologo Umberto Veronesi su «La Stampa». Critiche che, conclude Bertagna, «puntano il dito su un sistema scolastico che non funziona più. Occorre introdurre il prima possibile il merito e la personalizzazione».[FIRMA]ROSARIA TALARICO
ROMA
«Il male peggiore della scuola italiana? Ha smesso di essere uno strumento di promozione sociale - sostiene Lucio Russo -. La cultura non è importante per raggiungere il successo. Ad ogni legislatura diminuisce la percentuale di laureati eletti in Parlamento e si abbassa il livello medio di istruzione anche dei ministri». Russo, professore di calcolo delle probabilità all'università Tor Vergata di Roma, ha scritto nel 1998 un libro intitolato «Segmenti e bastoncini» (citato ieri nel fondo di Luca Ricolfi), interrogandosi sulla funzione della nuova scuola di massa.
Professore, dal ‘98 a oggi è cambiato qualcosa?
«C'è una maggiore consapevolezza del decadimento della scuola negli ultimi 30 anni e l'esigenza di invertire questa tendenza è molto più sentita e condivisa. Ma ciò non vuol dire che cambiare sia semplice».
La colpa è sempre della politica?
«Non del tutto. Manca una richiesta di competenza dal mondo del lavoro. E' una scuola pensata per i consumatori e non per i "produttori". Ormai è importante sapere come funzionano le cose e non come si producono. Tanto in Italia non si produrrà più nulla, perché si è avuta una rinunzia a produrre tecnologia avanzata».
All'estero se la passano meglio?
«Lo scadimento della scuola è un fenomeno riscontrabile anche a livello internazionale. Uno dei fattori che hanno contribuito a ciò è la concentrazione della produzione. Prima era molto più distribuita da un punto di vista geografico. Ad esempio, i computer: solo una ristretta élite oggi li sa costruire e si concentra in Usa o Giappone».
Nel suo libro era critico con la riforma dell'ex ministro dell'Istruzione Berlinguer. Di quella della Gelmini cosa ne pensa? «Al tempo ero isolato e tutti pensavano che la direzione di Berlinguer fosse quella giusta: "Insegniamo i videogiochi e cancelliamo la letteratura". Ora queste cose non si dicono più, ma nei fatti è più difficile invertire la tendenza. La Gelmini ha riportato in auge il voto in condotta, che fa anche media. Sembra un ritorno a una maggiore severità e invece va in direzione del lassismo, perché permette di salvarsi a chi prende un 10 in condotta e magari è insufficente nelle altre materie.
Al decadimento della scuola hanno contribuito in qualche modo anche i genitori?
«C'è una responsabilità della società nel suo insieme. Difficile distinguere tra cittadino genitore e non. Di sicuro è molto diffusa l'idea - veicolata dalla tv e non solo - che per avere successo economico la cultura non serve».
Colpa anche dei mass media?
«Certamente la capacità di seguire un ragionamento logico è minore. Nei dibattiti televisivi quasi mai qualcuno risponde veramente alla domanda posta e si parla per slogan».
E' proprio impossibile ribaltare le sorti di questa «Caporetto cognitiva», come la definisce Ricolfi?
«E' molto difficile. Non basta la volontà di un ministro per intervenire perché manca un progetto culturale».