La Stampa: Lasciate decidere i bambini
I piccoli non hanno le nostre rigidità e le nostre paure. Sono curiosi. Felici di mescolarsi
La rivolta dei genitori
«Via i figli dalle classi con troppi stranieri»
Minucci e Rossi
Per la prima volta nella storia, il Comune e le autorità scolastiche di una città italiana hanno tenuto una riunione congiunta con il seguente ordine del giorno: «Strategie di trattenimento degli alunni italiani sul territorio». Che tradotto dal burocratese significa: come faccio a tutelare i miei cittadini a casa loro? E’ un evento abbastanza assurdo e sicuramente epocale. Perché non si trasformi nella sindrome dell'indiano accerchiato, vanno messi da parte i due umori estremi che si scontrano, talvolta all’interno della stessa persona, quando si parla di integrazione: il razzismo mascherato da sdegno e l’esaltazione acritica della convivenza in ogni sua forma. La città pilota è Torino, dove nelle scuole di Porta Palazzo i figli di italiani rappresentano un’esigua minoranza, schiacciata dalla prole delle altre etnie. Una situazione limite, ma che comincia ad andare in replica anche altrove.
E che finisce inevitabilmente per trascinarsi dietro il discorso sulla qualità delle classi in cui il numero degli stranieri, degli italiani figli di stranieri e degli italo-italiani è invece in equilibrio.
Per raccapezzarci in questo guazzabuglio, proporrei di sgomberare il campo da una questione preliminare: la conoscenza della lingua. I genitori che lamentano un ritardo nell’apprendimento da parte dei loro figli a causa degli alunni extracomunitari non sono sempre dei beceri razzisti, anzi non lo sono quasi mai. Trovano giustamente inaccettabile che un allievo straniero che arriva a metà dell'anno scolastico costringa l'intera classe a rallentare o addirittura a fermarsi per aspettare che lui impari l'italiano. La soluzione dovrebbe essere dettata dal buon senso: chi va a vivere in un Paese di cui non conosce la lingua si rassegni a perdere l'anno scolastico per apprenderla. E aggregarsi al gruppo l'anno successivo. Altro che classe-ghetto. Un corso intensivo per «apprendisti italiani» sarebbe assai utile (anche a qualche italiano).
Ma quando il figlio di immigrati ha imparato la lingua o, caso ormai frequente, è italiano dalla nascita, come va poi gestita l'integrazione? Pare che il problema sia più sentito dai genitori che dai bambini. Un adulto può vivere con imbarazzo l’idea che suo figlio perda identità crescendo fra compagni di classe che non condividono le sue radici. I piccoli invece non hanno le nostre rigidità e le nostre paure. Sono curiosi. Felici di mescolarsi. E portati a prendere le cose della vita, anche le più strane, come normali. Ho sentito un bambino ricordare alla mamma con la massima naturalezza che non poteva offrire alla sua compagna di banco marocchina uno spuntino a base di carne durante il ramadan. La decisione andrebbe lasciata a loro, ai bambini. Se manifestano un disagio, può essere giusto trasferirli in altra scuola, esattamente come si fa quando capitano in una classe piena di bulli o di snob. Ma se stanno bene con Jemimah, Nicolae e Chong-Hi, i genitori sbaglierebbero a spostarli solo per inseguire i propri fantasmi. A patto che tutta la classe conosca l'italiano e non sia costretta ad aspettare chi non lo sa.
Rimane il caso estremo dal quale eravamo partiti. Quando la percentuale di italo-italiani è talmente bassa da rendere quasi inevitabile la discriminazione che finisce per colpire la minoranza più esigua. In situazioni simili, l'intelligenza suggerisce di ridistribuire con un minimo di raziocinio gli alunni delle varie etnie per evitare ghetti o sperequazioni eccessive. Accettando, per il bene superiore della comunità e anche per il proprio, di spostare tuo figlio in una scuola più lontana, anche se dovrai perdere dieci minuti d’auto o tre fermate di tram per accompagnarlo.