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La Stampa: Gelmini e la disunità dello Stivale

Michele Ainis

22/04/2010
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La Stampa

Al suo rientro nella vita pubblica dopo la maternità (auguri), il ministro Gelmini ha battezzato la prima iniziativa per celebrare i 150 anni dell’Italia unita: la disunione dei docenti. Come? Con una legge sugli insegnanti regionali, che ammetta in graduatoria soltanto chi risiede in quel determinato territorio.
L’idea già discussa ieri da Marco Rossi-Doria su queste medesime colonne porta con sé un problema però, almeno per noi che a scuola abbiamo studiato un po’ di logica. Anzi, i problemi sono almeno tre. Primo: il ministro ha dichiarato che la nuova legge introdurrà la meritocrazia nel corpo docente; e allora che ci azzecca la carta d’identità? Semmai è vero il contrario, perché le graduatorie regionali sarebbero un imbuto, un ostacolo alla selezione dei migliori. Secondo: sempre il ministro si è sgolato mille volte contro il provincialismo degli atenei italiani, contro i concorsi locali che fin qui hanno permesso d’allevare professori che non respirano se non l’aria di casa. Sicché li ha poi sostituiti con un unico concorso nazionale, e ha fatto bene. Ma allora come si spiega questa schizofrenia legislativa? Se l’obiettivo è quello (sacrosanto) d’ancorare i docenti per un certo lasso temporale ai propri studenti, basta imitare l’università, dove quando vinci un concorso non puoi schiodarti prima di tre anni. Terzo: il federalismo, la nuova divinità cui rendiamo omaggio a giorni alterni, anche con sacrifici umani. Si dà il caso però che nella più antica nazione federale al mondo - gli Stati Uniti - con un’idea del genere ti prenderebbero a sassate, non foss’altro perché ogni americano cambia Stato in media quattro volte nella vita.
E c’è poi una questione di diritto, ammesso che in Italia la legalità sia una faccenda seria. O meglio c’è una questione di diritti, e dunque di legalità costituzionale. Non per dare i numeri, ma l’art. 3 della Costituzione sta ancora lì a dettare il principio d’eguaglianza. A sua volta l’art. 51 specifica il medesimo principio circa l’accesso ai pubblici uffici. L’art. 97 impone il reclutamento dei migliori nelle prove concorsuali, senza riguardo al loro indirizzo postale. Infine l’art. 4 pone l'obiettivo della piena occupazione: ma con una riforma così sarà difficile raggiungerlo non solo per i palermitani, anche per i genovesi, dato che la Liguria ha molti meno posti d’insegnante che la Lombardia.
Non basta? E allora leggiamo insieme l’art. 120: «La Regione non può adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale». Per comprenderne il significato non serve conoscere il diritto, è sufficiente capire l’italiano. Ma forse varrà la pena ricordare che nel 1947 i costituenti l’approvarono quasi senza discussione, tutti d’accordo nel porre un argine agli egoismi localistici, onde impedire - dissero Condorelli e Nobile - che in futuro il Veneto potesse vietare ai calabresi d’aprire uno studio medico, e che per ritorsione la Calabria chiudesse i suoi confini agli ingegneri veneti. I nostri padri fondatori avevano la vista lunga, non c’è che dire; anche se poi i costituzionalisti hanno giudicato superflua questa norma, perché la libertà di circolazione e di soggiorno viene già protetta dall’art. 16 della Carta Costituzionale.
C’è un modo per superare i vincoli giuridici che sbarrano il passo a quest’ultima trovata? Sì che c’è, cambiando la Costituzione. Bisognerà correggerne mezza dozzina di disposizioni, ma con un po’ di pazienza l’impresa può riuscire. Peccato tuttavia che il diritto comunitario, fin dal 1957, garantisca a propria volta la libera circolazione dei lavoratori. Brutta notizia per chi vuol dividere l’Italia; magari può provarci, ma non potrà dividerla dal resto d’Europa.


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