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La Stampa: Dal confronto si impara più in fretta

Intervista a Benedetto Vertecchi

08/08/2009
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La Stampa

Benedetto Vertecchi insegna pedagogia nella terza università di Roma ed è riconosciuto come un luminare delle scienze dell’educazione.

Che ne pensa, professore, di questa corsa a iscrivere i bambini in una scuola fortemente multiculturale?

«I genitori in genere tendono a cercare per i propri figli la scuola migliore per la loro crescita e per il loro domani. Io sono convinto che quelle famiglie di Torino che si sono rivolte alla scuola di San Salvario si siano attenute a questo criterio: lo hanno fatto, cioè, perché la considerano una buona scuola, punto e basta. Cioè una scuola che funziona, con docenti preparati, con strutture adeguate. Il fatto che sia multiculturale è, ai fini della scelta, un elemento secondario».

Ma comunque, da un punto di vista pedagogico, è un fattore positivo o un problema in più?

«È un vantaggio, non c’è dubbio, un grandissimo vantaggio. Vivere e studiare a contatto con bambini con culture e esperienze differenti genera una quantità di interazioni molto positive. Bisogna considerare che i bambini stranieri hanno in genere delle competenze linguistiche molto maggiori di quelli italiani, non fosse altro perché conoscono due lingue, e questo genera un sistema di stimoli estremamente favorevole all’apprendimento».

Li può aiutare a imparare più facilmente le lingue?

«Non necessariamente. Non comporta interazioni strumentali, cioè direttamente collegabili a un obiettivo. Li aiuta in generale a crescere e a imparare».

Qualcuno obietta che una classe molto composita non può che essere un freno per la didattica: tutto, insomma, sarebbe rallentato.

«È vero esattamente il contrario. Certo, ci vogliono insegnanti preparati e una scuola attrezzata. Ma mi pare di capire che quella di cui stiamo parlando abbia entrambi questi requisiti».

Sarebbe opportuno mettere comunque un tetto alla presenza di bambini stranieri: un tanto e non più?

«La percentuale di italiani sarà sempre maggioritaria, io credo, e anche se non lo fosse la questione - da un punto di vista educativo - sarebbe irrilevante».

Altra obiezione: l’identità nazionale.

«Ma andiamo! Se c’è una minaccia all’identità italiana, questa viene da certe mode piccolo borghesi, da tutte le esterofilie acritiche che si sono diffuse in questi anni, dal linguaggio alla cucina, alle mode orientaleggianti. Forse questo può screditare ciò che c’è di valido nella tradizione nazionale, ma lo scambio di esperienza tra bambini a scuola può essere solo un arricchimento».

Ultima questione: la religione in una scuola multireligiosa. Come la mettiamo?

«Quando parliamo di religione diciamo due cose. La prima: un fenomeno culturale, strettamente connesso con una civiltà. È indubbio, per esempio, che la religione cattolica sia parte integrante della cultura italiana. Seconda: un apparato dottrinario a cui aderiscono i credenti. Ecco: la scuola italiana, purtroppo, enfatizza questo secondo aspetto, e allora nascono contrasti e prese di distanza. Se invece si puntasse sul primo si farebbe un’opera lodevole, perché sui testi, che sono cultura, non c’è mai conflitto. Sulle dottrine sì».

Bibbia e Corano potrebbero essere letti da tutti, vuol dire?

«Esattamente. E questo gioverebbe molto anche agli italiani: io ho degli allievi all’università che non sanno neppure i nomi dei quattro evangelisti: una lacuna culturale gravissima. Poi uno può credere o non credere ai Vangeli, al Corano o a quello che sia, ma questi testi non possono essere ignorati. Una scuola multiculturale, come quella di Torino, in questo senso può fare molto


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