La Stampa: Atenei in tilt senz’anima e senza soldi
Sprechi, gigantismo, inefficienza, lassismo etico: all’università serve subito una cura da cavallo
Attrazione zero Nelle facoltà italiane studia l’1,7% di stranieri, negli Usa il 20%
Record negativi Abbiamo il più alto tasso d’abbandoni al mondo: 55%
Via il valore legale del
titolo: più efficienza
con la concorrenza
Mai più cattedre a vita,
mai più lo stipendio
per chi non se lo suda |
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[FIRMA]MICHELE AINIS
ROMA
In principio è una questione di quattrini. C’è di mezzo l’avarizia con cui l’Italia alleva i suoi talenti, sicché il popolo studente ha tutte le ragioni a dire basta. Secondo l’ultimo Rapporto Ocse (Education at a Glance 2008), spendiamo per la scuola il 4,7% del Pil, contro il 5,8% della media dei Paesi sviluppati. Questa magra dotazione viene poi spalmata in modo diseguale sui vari livelli del sistema: per le elementari viaggiamo ben al di sopra della media (6835 dollari l’anno per alunno), ma risparmiamo per le scuole superiori e soprattutto per l’università (8026 dollari annui a studente, quando la media Ocse è 11.512 dollari). Di conseguenza la scuola elementare italiana è fra le prime 5 al mondo, ma già all’età di 15 anni i rapporti del Pisa situano i nostri studenti al 27º posto fra i loro coetanei di 57 nazioni per conoscenza della matematica, al 36º posto per le scienze, e via sprofondando. E ovviamente all’università il buco diventa una voragine.
Da qui il più alto tasso d’abbandoni al mondo (55%). Da qui un misero 17% di laureati fra chi ha da 25 a 34 anni, mentre la media Ocse è al 33% (insomma ci supera anche il Cile). Da qui attrazione zero verso l’estero (negli atenei italiani studia l’1,7% di stranieri, in quelli americani il 20%). Da qui una caduta verticale di prestigio: in base alla classifica della Shanghai Jiao Tong University la migliore università italiana è 146ª, perfino dietro quella delle Hawaii.
Da qui, infine, il divorzio fra una laurea ormai squalificata e il lavoro qualificato, dove contano altre medaglie, altri attestati di benemerenza. E infatti in Italia un laureato guadagna solo il 27% in più d’un diplomato, negli Usa l’86%. Sicché scappi chi può: secondo l’U.S. Citizenship and Immigration Service, nel 2006 c’erano 13.368 italiani ad altissima qualificazione con un posto di lavoro negli Stati Uniti. Tutta gente alla quale il nostro Stato ha pagato gli studi senza mai farsi ripagare, ed anzi regalando agli altri i migliori frutti dei propri investimenti.
Questa sciagurata condizione deprime gli entusiasmi, smorza l’energia di chi sgobba sui libri per costruirsi un futuro. Ma non dipende solo dal rubinetto della spesa. Anzi: la sua causa più profonda sta nella logica che pervade il sistema, dove il merito è diventato carta straccia, insieme al senso della legalità. Le prove? Truffe sui test d’ammissione negli atenei di Bari, Foggia, Chieti, Ancona, Catanzaro (settembre 2007). Lauree honoris causa concesse al signorotto locale per ingraziarsene i favori (95 soltanto nel 2007). Concorsi vinti da candidati con zero pubblicazioni accreditate (a Catania e a Parma nel 2001, a Bari nel 2002, a Reggio Calabria nel 2004, a Messina nel 2005, alla San Pio V di Roma nel 2006: Perotti, L’università truccata). 117 professori che a febbraio risultavano indagati presso le procure di varie città italiane, per favori impropri ai loro familiari. Mentre a maggio il Corriere della sera ha contato 24 magnifici rettori con famiglia nel medesimo ateneo.
«I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi», recita la norma forse più pregnante della Costituzione italiana (art. 34). Un diritto, non un privilegio né un favore. Tant’è che per renderlo effettivo la stessa norma pone allo Stato l’obbligo d’erogare «borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze». Ma in Italia gli studenti che conquistano una borsa di studio sono meno dell’8%, quando negli Usa e in vari altri Paesi uno su due non grava sullo stipendio di mamma e papà. Inoltre il meccanismo, nella sua concreta applicazione, penalizza gli studenti che divengano più poveri dopo il primo anno di erogazione della borsa; non esige che il borsista documenti le spese sostenute per studiare; e in conclusione tende più a evitare gli abbandoni che a premiare i migliori (Caroli Casavola, Giustizia ed eguaglianza nella distribuzione dei benefici pubblici).
D’altronde tutto il sistema di finanziamento pubblico verso gli atenei è ben poco orientato al merito, al sostegno dei comportamenti più virtuosi nella ricerca e nell’insegnamento. Anzi: secondo l’ex ministro Mussi (intervista all’Espresso, 19 gennaio 2007), sia per l’università che per gli enti di ricerca la dotazione finanziaria non tiene in alcun conto l’eccellenza. Denuncia sacrosanta, tuttavia i ministri stanno lì apposta per correggere il corso degli eventi, non per lamentarsi degli dei. Invece nel 2006 – quando Mussi cominciò il proprio mandato – il Fondo di finanziamento ordinario rimase del tutto indipendente rispetto alle performance dei singoli atenei, mentre alla Quota di riequilibrio fu destinato lo 0,5% del totale. Quanto al monitoraggio dei ricercatori, sempre Mussi ha chiuso il Civr sostituendogli l’Anvur, un mastodonte che avrebbe dovuto dare i voti a 20 mila docenti l’anno, e che è poi stato ucciso in fasce dal nuovo ministro Gelmini. Insomma le buone intenzioni passano, i ministri pure, ma resta immarcescibile la regola non scritta dell’università italiana: niente pagelle, todos caballeros.
Se la superficie dell’oceano è piatta, sui fondali nuotano invece pesci d’ogni razza. Durante gli Anni Ottanta del secolo passato in Italia venivano impartite oltre 10 mila discipline accademiche; nel frattempo questa cifra è quantomeno raddoppiata. D’altronde tutta l’università si è via via gonfiata come un panettone, dopo il 3+2 e le altre riforme varate dal 1997 in poi. C’erano allora 41 atenei; nel 2008 sono diventati 95, fra pubblici e privati. Ma se si contano anche le sedi distaccate (ce n’è una sotto ogni campanile, da Tempio Pausania con 5 studenti immatricolati a Petralia Sottana che ne ha 6), il totale fa 338. Da qui la proliferazione delle facoltà, sicché ne abbiamo aperte per esempio 14 di Veterinaria, più di quante ne sommino tutte insieme Francia, Germania, Austria, Belgio, Grecia e Danimarca. Da qui, e soprattutto, la moltiplicazione dei corsi di laurea: 5.517 nel 2007, quando erano 2.444 nel 2000. Fra le new entries, «Gestione delle imprese di pesca» (università del Molise), «Scienze della mediazione linguistica per traduttori dialoghisti cinetelevisivi» (Torino), «Scienze del fiore e del verde» (Pavia), «Scienza dell’allevamento, dell’igiene e del benessere del cane e del gatto» (Bari).
Insomma sprechi, gigantismo, inefficienza, parcellizzazione dei saperi (gli iperspecialisti che sanno tutto su niente, e perciò niente su tutto), lassismo etico, mortificazione delle competenze, sia sul versante dei docenti che su quello dei discenti: all’università serve una cura da cavallo. Ma per carità, non una cura normativa: l’ultimo dei mali di cui soffre il sistema dell’istruzione pubblica in Italia è il morbo del troppo diritto. Secondo la banca dati della Camera, dal 1996 al 2007 è piovuta addosso a quel sistema una grandine di 103 leggi, senza contare i decreti delegati, gli statuti, i regolamenti del governo, quelli dei singoli atenei, delle facoltà, dei corsi di laurea, master, dottorati di ricerca. E ovviamente al riparo di questo bosco normativo ciascuno fa come gli pare, tanto ogni regola genera sempre cento eccezioni. No, non ci serve un’addizione, bensì una sottrazione. Anzi una doppia sottrazione.
In primo luogo, via il valore legale della laurea. Soluzione non particolarmente originale (ne parlava già, mezzo secolo addietro, Luigi Einaudi), ma rivoluzionaria nei suoi effetti potenziali. Perché porrebbe le università in competizione fra di loro (vale di più la laurea dell’ateneo migliore), e perché non c’è efficienza senza concorrenza. D’altronde l’equiparazione formale del titolo di studio non esiste più, di fatto, nel settore privato, dove già le aziende assumono selezionando in base all’ateneo di provenienza; sicché è un feticcio che rimane in piedi solo per il settore pubblico, non a caso in Italia particolarmente disastrato. Meglio dunque il modello americano, meglio sostituire al valore legale della laurea un meccanismo di accreditamento, che costringa ogni ateneo a misurarsi con standard di qualità nazionali, periodicamente aggiornati e controllati. Ma quel modello non può venire importato per metà, non se ne può prendere una gamba soltanto; l’altra gamba consiste nell’erogazione capillare di borse di studio e altri supporti per gli studenti meritevoli, quando non hanno i mezzi per pagarsi gli studi. Altrimenti passeremmo da un abito tagliato su misura per i poveri di spirito a un altro che possono indossare unicamente i ricchi di famiglia.
In secondo luogo, via il valore legale della cattedra. Mai più cattedre a vita, mai più lo stipendio a fine mese per chi non se lo suda. Anche in questo caso la via maestra parte dagli Usa. Lì non esistono professori a tempo indeterminato, eccetto quelli con tenure, che rappresentano comunque l’eccellenza; gli altri, tutti gli altri, sono per così dire in prova. L’opposto di quanto accade alle nostre latitudini, dove i più tengono cattedra nel medesimo ateneo in cui si sono laureati; dove non a caso l’età media dei professori è fra le più elevate al mondo, con il 42% di ultracinquantenni e il 22,5% di ultrasessantenni (Sylos Labini e Zapperi, Lo tsunami dell’università italiana); e dove infine più invecchi e più guadagni, anche se non hai più nulla da insegnare. Perché in Italia sono bassi gli stipendi dei ricercatori, al primo gradino della scala; lo sono quelli degli studiosi più brillanti, che negli Usa – attraverso contratti individuali e fondi di start-up – talvolta superano un milione di dollari; ma sempre negli Usa il rapporto fra lo stipendio medio degli ordinari e degli assistenti è di 1,5 a 1, mentre qui lo stipendio di un ordinario a fine carriera pesa 4 volte e mezzo la busta paga dei neoricercatori. È il paradosso d’un sistema il quale – legando la retribuzione dei professori esclusivamente alla loro anzianità di servizio – non sa essere né egualitario né meritocratico, tanto da attirarsi la censura dell’Ocse (Rapporto Going for Growth, 2007); sicché c’è bisogno di rivoltarlo come un calzino usato.
michele.ainis@uniroma3.it |