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La sentenza che rivoluziona il mercato dei farmaci

Pietro Greco

06/04/2013
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l'Unità

Quando, lunedì scorso 1 aprile, la Corte Suprema dell’India ha respinto il ricorso della Novartis, la multinazionale svizzera del farmaco, a difesa del brevetto sul Glivec, un farmaco antitumorale, ha fornito due motivazioni affatto diverse, ma entrambe di valore generale: il «diritto alla salute della popolazione» viene prima del diritto delle imprese al guadagno; il farmaco su cui si chiede la copertura brevettuale non è innovativo. È per queste due ragioni che la Corte Suprema dell’India riconosce il diritto delle industrie locali a produrre e a vendere un «farmaco generico» che contiene il medesimo principio attivo e ha la medesima capacità terapeutica del Glivec. Nello specifico, il «diritto alla salute della popolazione» è assicurato dal fatto che un mese di trattamento con il farmaco generico costa circa 175 euro, mentre un mese di trattamento con il farmaco della Novartis costa 2.600 euro: 15 volte di più. Il «farmaco generico» abbassa radicalmente l’accessibilità a una cura capace di salvare la vita a chi è ammalato di un tipo di leucemia mieloide cronica e, quindi, rende effettivo il «diritto alla salute».
Quanto invece al brevetto, la Corte Suprema dell’India sostiene che il Glivec su cui la Novartis ha chiesto il brevetto non è innovativo. Ma è la stessa molecola che ha goduto di copertura brevettuale per vent’anni e ora, in base alle norme internazionali, ha perso il diritto ad averla. In pratica, secondo il massimo tribunale indiano la Novartis cerca di spacciare per nuovo un farmaco vecchio.
La Corte, come sempre succede in tribunale, si è pronunciata su un fatto specifico. Ma le due motivazioni hanno un significato molto più generale. La prima riguarda il riconoscimento che la salute è un diritto universale e primario dell’uomo. Altri diritti, come quello al legittimo guadagno di un’impresa, vengono dopo. I neoliberisti, in genere, inorridiscono di fronte a questa visione che antepone i diritti collettivi a quelli individuali. Ma, proprio nel campo della salute, sono almeno dodici anni che questa (sacrosanta) asimmetria è riconosciuta nella prassi. E miete successi. Un anno paradigmatico è stato il 2001, quando un altro tribunale, in Sud Africa, in nome del diritto alla salute negò il diritto delle multinazionali a vendere a prezzi di mercato inaccessibili alla popolazione locale il cocktail anti-Aids e autorizzò la produzione di un analogo «farmaco generico». Molti gridarono alla violazione delle leggi di mercato.
Ma proprio alla fine di quell’anno il paese portabandiera del libero mercato, gli Stati Uniti, che dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre avevano subito un altro attacco terroristico con spore di antrace, in nome del diritto alla salute minacciarono di negare il riconoscimento del brevetto a un’industria tedesca, se non avesse fornito vaccini a basso costo e in tempi rapidi. Entrambe le azioni andarono a buon fine. Oggi l’Unaids, un’agenzia delle Nazioni Unite, ottiene da Big Pharma il cocktail anti-Aids a prezzi scontati dell’80% per poter contrastare l’epidemia da Hiv nei paesi più poveri e gli Stati Uniti hanno ottenuto il vaccino anti-antrace come richiesto.
Il diritto alla salute è parte importante (la parte più importante, forse) di una costellazione di domande di diritti – che potremmo definire di cittadinanza scientifica – che stanno emergendo con chiarezza in tutto il mondo e che potremmo riassumere come la richiesta di riconoscere come diritti universali la partecipazione ai benefici della scienza e alle definizione delle politiche scientifiche. È singolare, come ha notato Stefano Rodotà, che questi nuovi diritti di cittadinanza vengano riconosciuti con maggiore prontezza in quelli che una volta venivano chiamati paesi in via di sviluppo piuttosto che nei paesi di più antica industrializzazione e di più solida democrazia. Ma questo fa parte di una certa incapacità dell’Occidente a cogliere le novità della nostra era, informata dalla scienza.
La seconda motivazione addotta dalla Corte Suprema dell’India rimanda proprio alle politiche di innovazione. Nel caso specifico, alle politiche di innovazione nel settore farmaceutico. La popolazione mondiale cresce e la piramide demografica si trasforma. Insomma abbiamo bisogno di nuovi farmaci, per curare sia nuove malattie, sia vecchie malattie che hanno una nuova incidenza. Il sistema con cui per alcuni decenni si sono prodotti nuovi farmaci – e che ha portato alla formazione di «Big Pharma», un gruppo ristretto di imprese multinazionali – non funziona più. Lo dimostrano alcuni recenti rapporti. Uno, il Global Pharmaceutical Market Report & Forecast: 2012-2017, sostiene che l’attuale mercato dei farmaci, che ammonta a circa 900 miliardi di dollari l’anno, è destinato a crescere nel prossimo quinquennio al ritmo del 5% annuo e che, nel 2017, ammonterà ad almeno 1.100 miliardi di dollari. Tuttavia si modificherà la struttura di questo mercato. La domanda di farmaci, infatti, crescerà soprattutto nei paesi a economia emergente. La cui incidenza, nel mercato mondiale, potrebbe passare dall’attuale 15% al 30%. Nel medesimo tempo verrà a scadenza la copertura brevettuale di molti farmaci: per 29 miliardi di dollari nel 2013, per 40 miliardi di dollari nel 2014. La gran parte del mercato di questi farmaci di marca verrà sostituita da farmaci generici, a più basso costo.
Il che creerà (sta già creando) non poche difficoltà a «Big Pharma». Ma le difficoltà maggiori sono quelle documentate in un altro rapporto – Beyond the Shadow of a Drought, redatto nei mesi scorsi da tre esperti americani: Jeff Hewitt, David Campbell e Jerry Cacciotti – che indica tre punti di crisi del sistema. Primo. Siamo passati dall’«età dell’oro» dell’innovazione all’«età della scarsità». Con una perdita della capacità di produrre nuovi farmaci che è caduta del 40%. Nel corso dell’«età dell’oro», che copre gli anni dal 1996 al 2004, la FD&A, l’agenzia americana che autorizza la vendita di nuovi farmaci, ha approvato l’introduzione sul mercato di 36 nuove formule ogni anno. Nell’«era della scarsità», compresa tra il 2005 e il 2020, la FD&A ha autorizzato la vendita di soli 22 nuovi farmaci l’anno. Le industrie faticano a innovare. E reagiscono nel modo denunciato dalla Corte Suprema indiana, cercando di estendere il brevetto scaduto a vecchi farmaci ritoccandoli in componenti non essenziali.
Secondo. Ogni nuovo farmaco genera sempre meno valore. Nell’«età dell’oro» ogni nuovo farmaco nei cinque anni successi all’immissione sul mercato produceva 515 milioni di dollari, oggi ne produce 430: una perdita secca del 15%. Terzo. La ricerca scientifica ha subito una secca perdita di produttività. Nell’«età dell’oro» le imprese nei primi 5 anni dopo la messa a punto di un nuovo farmaco ricavavano 275 milioni di dollari per ogni miliardo di dollari investito in R&D. Ora ne ricavano appena 75 milioni. La perdita secca di produttività è stata addirittura del 70%. Tanto più grave se si considera che gli investimenti mondiali in R&D sui farmaci sono raddoppiati in assoluto, passando da 65 a 125 miliardi di dollari. È anche vero che in passato le grandi imprese private non brillavano per capacità innovativa: scoprivano nei propri laboratori solo il 10% dei nuovi farmaci e acquistavano il restante 90% delle nuove formule dai laboratori finanziati con fondi pubblici. Ma oggi il sistema non regge più. Sono in crisi sia il monopolio, sia la capacità di innovazione sia la produttività dell’innovazione. Per questo, come ha scritto su Science, Garret A. FitzGerald, dell’Institute for Translational Medicine and Therapeutics, del Perelman School of Medicine Translational Research Center di Filadelfia, occorre ripensarlo, quel sistema, daccapo. Non è facile dire come. Ma la Corte Suprema dell’India ci offre alcuni spunti.
In primo luogo occorre un sistema che metta al centro il malato e non il cliente. E che, dunque, assicuri il diritto alla salute di tutti, non il guadagno di alcuni. Il mercato può essere uno strumento, non il fine dell’industria del farmaco. Anche perché è dimostrato che il mercato non è il motore dell’innovazione. È semmai il tempio del restyling delle vecchie formule. Il vero motore dell’innovazione resta quello dei centri finanziati con fondi pubblici, dove nell’«età dell’oro» come nell’«età della scarsità» si sono messi a punto nove nuovi farmaci su dieci.


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