La Segreteria Nazionale della CGIL-Ritiro immediato dall'Iraq
Ritiro immediato dall'Iraq Subito dopo l'attentato di Nassiriya abbiamo detto che quella tragedia colpiva dolorosamente tutte le lavoratrici e i lavoratori italiani e tutto il paese in egual misura: ...
Ritiro immediato dall'Iraq
Subito dopo l'attentato di Nassiriya abbiamo detto che quella tragedia colpiva dolorosamente tutte le lavoratrici e i lavoratori italiani e tutto il paese in egual misura: chi aveva sostenuto le ragioni della guerra in Iraq e chi come noi ne ha sempre sostenuto illegittimità e assurdità.
E' un dolore che si è manifestato con i dieci minuti di sospensione dal lavoro proclamati da Cgil, Cisl, Uil nel giorno dei funerali, con mille segni e gesti di solidarietà alle famiglie dei militari e dei civili morti, con lo sfilare silenzioso al Vittoriano e che ha accomunato tutta la città di Roma e l'Italia.
Un dolore a cui la retorica utilizzata a piene mani dai media non ha aggiunto nulla, anzi. Il rispetto del lutto ha come suo corollario insostituibile la sobrietà, quella contenuta nelle dichiarazioni dei familiari dei carabinieri e dei militari uccisi, quella delle dichiarazioni di chi si trova ancora a Nassiriya: "non siamo eroi, ma persone a cui è stato affidato un compito che cerchiamo di svolgere al meglio".
Si è detto che in giorni come questi, il dolore (e noi, condividendo, aggiungiamo la sobrietà) impone che tacciano le polemiche politiche. Se è giusto sospendere la ricerca delle responsabilità (la polemica), è altrettanto doveroso che le grandi forze sociali e politiche non vengano mai meno alle loro responsabilità. In verità in questi giorni e durante l'immediato dibattito parlamentare tutti hanno espresso opinioni sul tema vero all'ordine del giorno: il ruolo che l'Italia ha scelto di svolgere nella guerra in Iraq, di cui l'invio e la permanenza delle truppe è diretta conseguenza, e quello che da oggi dovrà assumere per superare l'immane tragedia che la situazione in Medio-Oriente rappresenta.
Si è reso evidente così che il silenzio del lutto per alcuni sottintendeva la cancellazione fastidiosa delle opinioni diverse, in questo caso contrarie alla guerra e alla presenza militare in territorio iracheno.
E' un errore d'altra parte circoscrivere la discussione in una disputa tra permanenza e ritiro delle truppe, perché in realtà l'una e l'altra scelta sono conseguenze di una discussione più complessa, che è quella che va fatta per intero.
Per noi il giudizio sull'invio dei militari italiani e la loro permanenza discende, così come dovrebbe essere, in primo luogo dal giudizio sulla guerra, sbagliata e illegittima, e dalla valutazione sulle possibili soluzioni della crisi internazionale che quella guerra ha aggravato. Pensavamo e pensiamo che la guerra non possa essere lo strumento per risolvere le controversie internazionali, come afferma la Costituzione italiana e come abbiamo chiesto venga inscritto nel Trattato costituzionale europeo. Lungi da essere una semplice affermazione di valore, il rifiuto della guerra, nel mondo globale e interdipendente, è una scelta strategica di politica internazionale.
Pensavamo e pensiamo che il terrorismo, che non ha mai ragione, neanche quando brandisce le bandiere dell'ingiustizia, vada contrastato dalla comunità internazionale innanzitutto asciugando l'acqua che lo alimenta, imboccando la strada del superamento del baratro che oggi divide il Nord ricco del mondo dal Sud povero, ricostruendo per tutti speranza, libertà, diritti umani. Da più di dieci anni la comunità internazionale assiste alla tragedia del conflitto israelo-palestinese. Quella tragedia e il suo carico quotidiano di morti continua ad alimentare un terrorismo sempre più globale e aggressivo (di cui la strage nella sinagoga di Istanbul è una nuova testimonianza) e foraggia la follia della contrapposizione tra Islam e Occidente: come può una guerra mettere fine a tutto ciò?
La teoria della guerra preventiva è la risposta dall'amministrazione americana alla necessità di ridefinire un nuovo ordine mondiale, franato insieme al muro di Berlino e travolto dalla globalizzazione. Una risposta che propone una nuova egemonia militare, economica, politica e sociale, quella americana.
La storia e la cronaca dimostrano tragicamente che quella ricetta non è solo sbagliata in termini etici, è inefficace e perdente: lo scontro di opinioni sulla scena mondiale e nella dialettica politica italiana è avvenuto esattamente su questo punto.
L'Europa si è divisa su questo; questo è stato il conflitto che ha pesato sulla stesura del Trattato costituzionale; questa l'ambiguità tra i paesi e nei paesi europei sulla stessa missione dell'Europa: concorrente-alleato Usa o attore che promuove, in virtù del suo modello sociale, un nuovo ordine mondiale fondato sulla multipolarità, su una nuova democrazia mondiale, su una nuova definizione di beni pubblici e diritti fondamentali che la comunità internazionale ha il dovere di promuovere e tutelare universalmente.
L'Italia ha scelto in questi mesi la subordinazione a prescindere all'amministrazione Bush; ha assecondato il senso della guerra preventiva, sposandone motivazioni e implicazioni geo-politiche e di modelli di sviluppo. Ha smarrito perfino il profilo della sua tradizionale politica estera attenta, per la sua stessa configurazione geografica, ai paesi arabi, e per questo ha rinunciato a quella funzione, anch'essa tradizionale, di mediazione tra israeliani e palestinesi.
L'invio delle truppe italiane in Iraq è stato il corollario di quelle scelte, al di là delle giustificazioni di peace-keeping: è possibile "mantenere la pace" sotto comando inglese, nel corso di una guerra che oggi, tutti, riconoscono in corso?
La real politik consiglia di pensare all'oggi e non al passato, ma in realtà è proprio sulla scorta della genesi della situazione che si possono trovare rimedi efficaci e definitivi.
La direzione di marcia da imboccare non ha molte alternative: la comunità internazionale, l'Onu, deve assumere responsabilità; deve promuovere una nuova speranza per il conflitto israelo-palestinese con l'invio di una forza di interposizione a cui l'accordo di Ginevra tra intellettuali israeliani e palestinesi dà ancoraggio; deve agire subito per avviare il processo di ricostruzione dello stato iracheno e delle sue istituzioni, liberamente scelte.
La nostra opinione è che la presenza in quel territorio di truppe anglo-americane e italiane sia da un lato un ostacolo decisivo per l'avvio di quel processo, dall'altro costituisca l'acqua per nuovo terrorismo.
Anche su questo occorre intendersi: perché si avvii un processo di ricostruzione della fisionomia di uno stato iracheno democratico, occorre che il popolo iracheno riconosca legittimità all'autorità che promuove quel processo: è possibile che tale legittimità, e quindi il consenso, vengano riconosciuti a chi, il comando anglo-americano, ha bombardato alla ricerca di armi non trovate, ha distrutto il suo apparato militare e amministrativo, ha cancellato il suo patrimonio artistico, la sua memoria?
E' possibile scongiurare il sospetto che esistano interessi propri che le truppe anglo-americane presidiano in quel territorio in luogo degli interessi loro?
Il ruolo dell'Onu non è necessario solo per ripristinare il diritto internazionale violato dalla guerra illegittima (pure se nel vuoto del diritto internazionale l'arbitrio diventa la nuova regola dell'ordine mondiale), ma per ragioni squisitamente politiche e di consenso, per rendere credibile il processo che è necessario avviare: il ritiro delle truppe è la condizione di premessa per la ricostruzione politica e sociale dell'Iraq, per il suo auto-governo, per togliere acqua al terrorismo.
La risoluzione 1511 dell'Onu costituisce un tentativo di rimettere insieme i cocci del diritto internazionale violato dalla guerra preventiva: cerca di affrontare il tema importante della legalità internazionale, non risolve quello decisivo della legittimità politica di fronte al popolo iracheno.
La Cgil ha assunto in questi mesi una posizione netta sulla guerra, sulla missione dell'Europa, dunque sullo scontro geo-politico aperto sullo scenario internazionale, perché riteniamo che gli esiti di quello scontro incidano pesantemente sulle condizioni materiali e sulle libertà delle persone che rappresentiamo:non l'abbiamo fatto da soli ma insieme al grande e composito movimento per la pace che oggi non può non tornare in campo.
Continueremo a farlo promuovendo, a dicembre, una iniziativa di discussione che avrà il profilo generale di cui si diceva e partecipando e aderendo a tutte le iniziative che si muovano nella medesima direzione: (cominciando da sabato 22 novembre) no al terrorismo, no alla violenza, no alla guerra preventiva, immediata assunzione di responsabilità della comunità internazionale e immediato ritiro delle truppe.
La Segreteria Nazionale della CGIL
Roma, 19 novembre 2003