La scuola vince se salva il merito
di Giorgio Israel
Certo, il rispetto l’insegnante deve saperselo conquistare. Egli deve essere competente, aggiornato, impegnarsi nel rapporto con gli allievi ed essere soggetto a verifica. La progressione di carriera e di stipendio, se non è riproposta come automatismo di anzianità, significa premio del merito e quindi valutazione. È un tema difficilissimo su cui è d’obbligo la prudenza e un’analisi spassionata dei risultati contraddittori delle esperienze estere. Da noi si sono fatti primi tentativi che hanno incespicato e a cui potrebbe subentrare la tentazione delle tecniche valutative automatiche, mediante parametri numerici e test. Proprio in questi giorni, in un altro settore dell’istruzione, quello universitario, constatiamo a cosa esse portino. Dopo mesi di conteggi statistici basati sul principio che la produzione scientifica si valuta senza leggerla, molti professori che secondo un’evidenza incontestabile sono di alto livello, e in certi casi sono figure che onorano la cultura nazionale, sono stati dichiarati inidonei a far parte di commissioni di concorso. È un esito su cui occorre meditare per non ripetere analoghi errori nella scuola. Mi sento di affermare, come principio generale – senza poter entrare nello specifico – che la valutazione ha senso solo se assume le caratteristiche di un processo culturale interno alla comunità di riferimento che favorisce la crescita delle forze migliori. Pertanto, la metodologia più adatta è quella delle ispezioni.
L’illusione di chi sogna la società perfetta è cercare un sistema ideale, privo di difetti e, come si dice, oggettivo. Un siffatto sistema non esiste e cercarlo conduce a rimedi peggiori del male. È più saggio perseguire un percorso virtuoso di miglioramento senza sognare palingenesi. È per questo che il mito delle valutazioni automatiche affidate a meccanismi o ad autorità indipendenti (che non esistono) è illusorio. Un valido esame non può che essere condotto da persone e non può ridursi a test o quiz, se non per accertare che il candidato sappia cos’è una frazione o conosca le regole della sintassi. È da augurarsi quindi che la pre-selezione prevista nel futuro concorso per insegnanti non miri a valutare le «competenze logiche e deduttive» del candidato mediante test: la logica deduttiva è soltanto un aspetto del ragionare, e talora neppure il più importante, e nessun test può acclararne il possesso se non a livelli minimali.
Occorre anche guardarsi dall’attribuire al «saper stare a scuola», maggiore importanza delle conoscenze. Vorrei proporre al ministro una riflessione riferendomi al caso delle materie scientifiche e della matematica (che meglio conosco). Qui il problema primario è il degrado dell’insegnamento della matematica in termini di contenuti, come risultato del susseguirsi di cattive indicazioni nazionali, di prescrizioni didattiche sbagliate che, a loro volta, hanno indotto una manualistica scolastica assai discutibile. Occorre evitare sia la tendenza a fare dei contenuti l’ultimo dei problemi, sia il rischio di affidare la valutazione di scuole e insegnanti a specialisti di attitudini sociali o psicologiche, cui si riconosce il discutibile diritto di stabilire quale sia il modo giusto di stare in classe; il quale in verità non esiste. Le intenzioni possono essere ottime. L’esito può essere quello di aprire la strada a un’ideologia poco liberale della standardizzazione delle metodologie d’insegnamento. Ben venga quindi la valutazione delle conoscenze e dell’efficacia espositiva mediante una prova di lezione; ma tenendosi lontano dai colloqui sulla gestione della classe, su cui sarebbe improprio codificare precetti di stato. Sul teorema di Pitagora, sulla sintassi o sulle conoscenze geografiche o storiche, c’è poco da discutere; ma sul modo di rapportarsi con gli studenti è legittimo avere idee diverse.
Ha ragione il ministro ad auspicare una rimodellazione delle strutture fisiche della scuola, da pensare con i piedi di piombo. È da chiedersi dove si potranno trovare le risorse per una simile impresa titanica. Per ora accade che le lavagne interattive multimediali entrino in scuole dove cade pioggia o calcinacci. E pensare che le scuole possano assolvere al ruolo di centri civici, ludici e sportivi è un sogno, peraltro insidioso, se si pensa alla tendenza, da tempo in atto nelle primarie, a inserire ogni sorta di attività a spese dell’apprendimento. Il gioco è bello, a qualsiasi età, ma chi conosca i nostri ragazzi è preoccupato dalla loro fragilità che la scuola alimenta troppo – con un permissivismo che giunge al punto di considerare normale il copiare – non addestrando al faticoso impegno necessario per acquisire qualsiasi capacità, non educando ad affrontare le difficoltà. Con le quali poi essi si scontreranno spietatamente all’ingresso in un mondo del lavoro sempre più chiuso e accidentato