La scuola non abbandoni i più deboli
Marco Rossi-Doria
Caro direttore, in pochi sanno che nel ministero dell’Istruzione c’è una meravigliosa biblioteca, che racchiude i tesori di 150 anni di scuola. Tra questi c’è un registro del 1944-45, di una scuola elementare di San Lorenzo, Roma. La maestra racconta nel diario di classe di tutti gli alunni che perde. Per fame, povertà, malattia. Della difficoltà di fare lezione d’inverno, con le finestre rotte dalle bombe. E della fatica di andare avanti tutti insieme.
Sono pagine commoventi che raccontano un’Italia che è esistita. E che esiste ancora, per fortuna entro nuove condizioni. E’ un’Italia fatta d’insegnanti che ogni giorno entrano in classe, in mezzo a difficoltà più o meno grandi, e si rivolgono con fiducia ai loro alunni. Mantengono alta la speranza nel futuro operando con dedizione. E che fanno anche un’altra cosa che è forse la più preziosa per qualsiasi comunità. Distinguono ogni volta “il fare scuola” e, cioè, l’accompagnare i bambini e i ragazzi nell’apprendimento e nella crescita dal fatto che si può essere scontenti – come insegnanti e come cittadini – per le condizioni entro le quali si è chiamati a operare. Le classi numerose, la mancanza di mezzi, le altre difficoltà vanno sì combattute. E va sì sostenuto che ogni soldo per la scuola, se lo si usa bene, è un investimento per la crescita e la coesione del Paese. Ma le difficoltà non possono essere mai usate oltre il limite dato dalla sua stessa funzione sociale. Perché la scuola è il luogo che fa prevalere la responsabilità come base per l’assunzione della funzione educativa adulta. Ed è proprio per questa sua capacità di essere responsabile che intorno alla scuola vive e cresce un senso di “essere parte di”. Lo si vede ogni giorno nelle migliaia di azioni volontarie dei genitori a suo vantaggio, nella difficile mediazione tra genitori e docenti sul tema di come educare oggi, nella sapienza con la quale riesce a integrare 710 mila bambini e ragazzi di cittadinanza non italiana e 184 mila studenti disabili. O nel costruire azioni per riconquistare le migliaia di ragazzi che ancora perde. O, anche, in episodi simbolicamente forti. Come è stato quello di aver saputo inviare la settimana scorsa le prove di esame di maturità con i nuovi media, dopo anni di proponimenti disattesi per troppa timidezza quando, invece, la scuola sa e può osare moltissimo.
Poi, certo, le cronache raccontano di una scuola primaria, dove in 2 prime classi per un totale di 59 bambini si è voluto bocciarne 5. E quando il Ministero ha chiesto di ripensarci, li si è nuovamente bocciati. Con alcuni genitori che hanno detto che è colpa delle classi numerose…. Cinque bocciati su 59, l’8,5%! Quando la media di bocciature in Italia nella scuola primaria – dalla prima alla quinta – è molto meno dell’1%. Con ottimi risultati nelle prove internazionalmente vagliate. Perché non è la bocciatura che fa la qualità. Poi, certo, può capitare di bocciare. In 35 anni due volte l’ho fatto. Ma la riflessione coi colleghi non verteva sulla classe numerosa, che pur c’era. E so che per fortuna nelle scuole quando si boccia le ore sono dedicate agli errori comuni, alle strategie di recupero e al parlare a lungo e per tempo per condividere con genitori in difficoltà.
Può essere utile prendere a pretesto questo episodio per riflettere sul momento che tutti stiamo vivendo, di fronte al protrarsi della crisi. L’impegno del governo sta mettendo al riparo il sistema-Paese dalle conseguenze più gravi, anche chiedendo grandi sacrifici. Ma ci vorrà tempo e forza comune per uscirne. E, intanto, cresce la disoccupazione. Oltre 3 milioni le persone vivono in povertà di cui 1 milione e 800 mila sono minori. Sono dati che evidenziano un rischio per la tenuta della coesione sociale, quella che Durkheim descriveva come la «durezza del bronzo»: una forza che non risiede nei suoi singoli componenti, ma nel loro insieme. Si tratta della capacità di una comunità di stare unita nelle difficoltà.
La scuola coinvolge quasi 10 milioni di bambini e ragazzi, le relative famiglie e un milione di lavoratori. Ed è ancora la porta attraverso cui tutti crescono, diversi ed eguali, nell’incontro con l’altro da sé. E’ per questo che la scuola è il retroterra forse più importante per la tenuta del Paese. E non può cedere alla più semplice e ingiusta delle risposte che è quella di rifarsi sui più deboli e scaricare su di loro le nostre responsabilità. Lorenzo Milani riassumeva tutto questo nello slogan I care. Il tuo problema è un mio problema. Mi interessa. Non mi posso girare dall’altra parte. Perciò l’immenso patrimonio di coesione sociale, solidarietà, inclusione, equità - e anche di merito ottenuto per conquista e non per destino - che è presente nella scuola italiana deve essere accudito. Da un rinnovato patto sociale per la scuola. Che sappia trovare risorse e innovare quel che va innovato. Ma che deve salvaguardare la priorità del principio di responsabilità.