La scuola merita più rispetto
di Giovanni Belardelli
A giudicare dalle cronache di questi giorni la «Buona scuola», uno dei fiori all’occhiello dell’esecutivo, si sta arenando tra proteste di piazza e annunci di sciopero, oscillazioni e modificazioni continue da parte dello stesso governo. In chi si oppone al progetto di riforma tornano vecchi atteggiamenti sindacali: dagli slogan evergreen contro l’«attacco alla scuola pubblica» alla diffidenza verso ogni cultura della valutazione (è indicativoche lo sciopero deisindacati della scuolasia stato fissato peril 5 maggio, giorno in cui nelle primarie dovevano tenersi le prove Invalsi).Ma non si può dire che, da parte sua, il governo abbia fatto molto per alimentare il consenso dell’opinione pubblica. Quanto meno attorno agli aspetti della riforma sui quali più facilmente avrebbe potuto ottenerlo. Appenaarrivato a Palazzo Chigi il presidente del Consiglio aveva giustamente annunciato un pianodi lavori edilizi per lamessa in sicurezza delle scuole; ma è statofatto poco o nulla.Poi tutta la «Buona scuola»è sembrata riassorbita dalla questione dell’assunzione dei precari: quasi 150 mila, poi 100 mila, poi chi sa. Contemporaneamente si è sostenuto qualcosa che va contro una logica elementare; e cioèche questa gigantescaforma di ope legisavrebbe portato finalmenteil merito nella scuola,perché in seguito sisarebbe proceduto soltanto attraverso concorsi. Ma è di questi giorni la notizia che a migliaia di precari che non potranno essere assunti nel 2015
si riserverà un punteggio speciale nel prossimo concorso. Con tanti saluti al merito e alle prospettive di quegli aspiranti insegnanti che hanno
la sola colpa d’essere troppo giovani. Intendiamoci: non è responsabilità di questo esecutivo se per decenni i governi, ma anche un’opinione pubblica evidentemente poco attenta, hanno permesso che si creasse un gigantesco esercito di precari, che poi non è facile (e forse neppure giusto) mandare a casa dicendo: abbiamo scherzato. Ma sarebbe stato meglio utilizzare parole di verità, spiegando al Paese come — non potendosi fare miracoli — occorresse mettere d’accordo la necessità di assumere i precari, anche in conseguenza di una sentenza della Corte di giustizia europea, con la salvaguardia di spazi di accesso per i giovani aspiranti insegnanti (poi, però, questi spazi bisognava garantirli davvero). Lo stesso si sarebbe potuto fare a proposito della annunciatissima politica di edilizia scolastica che ha prodotto risultati minimi anche per carenza di risorse. La verità
è che il declino della «buona scuola» riassume due caratteri (e limiti) di fondo della nostra politica. In primo luogo, l’idea che lo storytelling , come oggi usa dire, e con esso la capacità di comunicare ottimismo, possa davvero rappresentare il centro della politica. Con tutta l’importanza che va riconosciuta alla necessità di infondere speranza in un Paese piegato dalla crisi, se si esagera, la realtà con i suoi problemi si prende poi una rivincita. In secondo luogo, è il progetto stesso della «buona scuola», a ben vedere, ad essere in fondo poco riformista. Il nostro sistema scolastico coinvolge un milione di dipendenti, tra docenti e non docenti, più milioni di studenti con i loro genitori. È un sistema complesso in cui operano stratificazioni legislative e norme non scritte, che risente (e come potrebbe essere diversamente?) della cultura e dei codici di comportamento, dei valori o disvalori esistenti nella società circostante, che non è la stessa a Bergamo o a Scampia. Eppure sono decenni che ogni nuovo ministro arriva con la sua riforma, con l’idea che la vita di milioni di persone possa cambiare dall’oggi al domani grazie all’articolato delle sue leggi. Ma il riformismo non dovrebbe consistere nell’operare in questo modo, rischiando ogni volta che la vita scolastica venga inutilmente terremotata. Il governo,
dunque, avrebbe forse fatto meglio a concentrarsi su pochi punti che giudicava essenziali. Se ci si lascia guidare invece dalla pretesa o dal mito della grande riforma della scuola, si rischia di dare attuazione a una parte soltanto dei propri intenti, e magari non necessariamente ai migliori.