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La scuola è un’aliena Negli adulti di oggi il percorso formativo non ha lasciato tracce davvero evidenti

di Paolo Giordano

28/06/2015
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Corriere della sera

Giorni di maturità. Le troupe dei telegiornali si appostano davanti alle scuole superiori, quasi sempre le stesse: licei classici o scientifici nei centri delle grandi città, Milano e Roma, istituti con tradizioni gloriose alle spalle. Gli studenti intervistati sono vispi, forbiti, vistosamente preparati. Sperano che da tradurre esca Cicerone, ma temono sia l’anno di Tacito. È palese, nondimeno, la loro dimestichezza con entrambi.
La celebrazione degli esami di maturità si ripete identica ogni giugno, ed è un bel rito per un Paese civile. Si festeggiano i nuovi adulti, si dà loro il benvenuto nell’altro mondo. Ma quest’anno, per la prima volta, ascoltando gli intervistati avverto qualcosa che non va, qualcosa di sbagliato. Non di sbagliato in loro, certo che no, ma in noi, mentre ci trastulliamo nella contemplazione di quella meglio-gioventù. Come se quei ragazzi, così profondamente immersi nelle materie che hanno studiato, così partecipi del proprio percorso scolastico, non fossero davvero rappresentativi della scuola italiana nel suo complesso. È plausibile che io sia semplicemente condizionato dagli scontri degli ultimi mesi, dai malumori diffusi, eppure: i ragazzi con «IL» Castiglioni-Mariotti stretto sotto il braccio mi sembrano delle incarnazioni. Di chi? Di un archetipo, di un’idea astratta, dello studente immutabile, «eterno». Quello curioso, fragile, consapevole e soprattutto adeguato al sistema, l’emblema, insomma, della scuola virtuosa e funzionante che a molti di noi piace vedere proiettata ancora e ancora dal proprio passato. Nascosto dietro ognuno, tuttavia, s’intravede una schiera ben più nutrita di coetanei. Si apprestano anch’essi all’esame, ma con il distacco e l’abulia che ne ha inficiato quasi ogni giorno di vita da scolari. Entrano ed escono dai cancelli degli istituti, senza che telecamere e microfoni indugino su di loro, così come loro non indugerebbero un istante più del necessario dentro quell’istituzione che hanno sempre avvertito così lontana.

Non si tratta della distinzione collodiana fra somari e ragazzi assennati (nella quale, tuttavia, dimostrano di credere ancora in parecchi, fino a elevarla a una strana forma di manicheismo), né c’è bisogno di interrogare i dati sull’abbandono scolastico o i risultati nei test internazionali: il fatto che la scuola come la conosciamo sia oggi un involucro alieno e incomprensibile ai più è qualcosa di palpabile nell’aria. D’altra parte, può darsi che questo distacco fra il modo di trasmettere il sapere e la sensibilità comune tra i giovani sia iniziato ben prima di quanto non sospettiamo, che fosse già in atto nella mia generazione e in quella sùbito precedente, quella degli attuali quarantenni, benché in una forma non tanto diffusa da lasciarcene accorgere. È un dubbio che sorge guardando all’oggi. L’efficacia di un sistema educativo, infatti, è misurabile al meglio solo nel lungo termine, dalla capacità o meno della struttura acquisita come allievi di resistere al tempo e alle trasformazioni. «La paidéia , o la maggiore età — scrive Umberto Curi in La porta stretta —, non è uno stato al quale si possa accedere attraverso l’infusione di talune conoscenze, e dal quale non si possa recedere. Né si tratta di qualcosa che possa essere considerato acquisito definitivamente, e che perciò si lascia alle spalle quell’altro stato, caratterizzato solo dalla mancanza di ciò che dopo venga posseduto».
Ebbene, negli adulti di oggi la scuola non ha lasciato tracce davvero evidenti. Lo testimoniano la diserzione improvvisa dei lettori, la maniera di fruire (o di non farlo affatto) della cultura, la scioltezza con la quale ci si è scrollati di dosso l’impostazione canonica del pensiero e, più in generale, il modo di vivere e funzionare dominanti. Il sapere scolastico è spesso rimasto incapsulato fra una spiegazione in classe e il voto di una verifica, senza produrre alcunché di duraturo. Qualcosa che a scuola doveva attecchire, una certa resilienza alla regressione, per lo più non ha attecchito. E rischia di farlo sempre meno.
Si può pensare di riformare l’istruzione senza prima riflettere su questo, insistendo nel voler costruire le condizioni ottimali intorno a quello «studente eterno» che forse si è già estinto da un pezzo? Oppure converrebbe finalmente spostare lo sguardo — senza pregiudizio, bensì con disponibilità e compassione — sui ragazzi seduti dietro i banchi? Sarebbe certo una piccola rivoluzione, come un cambio di paradigma copernicano: invece di tenere fisso al centro il sistema di per sé, con le sue regole e le esigenze di chi vi opera, posare l’ago del compasso su chi deve usufruirne, su chi necessita d’imparare.
Ma ecco, provvidenziale, l’arrivo delle vacanze estive. Suonata l’ultima campanella di questo quadrimestre tumultuoso, non è troppo chiaro con che cosa rimaniamo. Centomila nuovi insegnanti, forse. Sicuro è, tuttavia, ciò con cui non rimaniamo: una visione nuova della nostra scuola. Il consulto più esteso del quale si abbia memoria non ha prodotto alcuna immagine di ciò che l’istruzione potrebbe e dovrebbe essere domani. Soltanto piani di assunzione, possibili rimescolamenti della burocrazia interna, sfoghi di rabbia e varie istanze particolari. L’ispirazione pedagogica, tanto nelle proposte del governo quanto nelle reazioni a tali proposte, è stata del tutto inafferrabile, forse assente dal principio.

Qualcuno denuncia che il confronto pubblicizzato sia stato in realtà di facciata, che il governo sia andato avanti con i paraocchi e i tappi di cera nelle orecchie. Possibile. Ma, per quanto mi è stato dato di sentire, le obiezioni hanno tradito una miopia alquanto simile. A parte qualche allusione vaga all’importanza della storia dell’arte e delle lingue straniere, e a parte i soliti nostalgici per i quali «ci vorrebbero più ore di latino» (e il mondo sarebbe d’un tratto un posto migliore?), non si è discusso affatto di ciò che bisognerebbe insegnare, di come insegnarlo e, soprattutto, di come sono cambiati coloro ai quali l’insegnamento è rivolto.
Chi sono gli adolescenti di oggi? Quali bisogni hanno? Come funziona il loro apprendimento? I programmi ministeriali e i criteri di valutazione sono sintonizzati con la realtà tecnologica, multiculturale, priva di gerarchie standard e sottilmente perversa nella quale vivono? Ma almeno su queste domande, il governo e il fronte a muso duro degli insegnanti sono apparsi solidali: non sono questioni urgenti. Se i professori saranno finalmente stabili e appagati, il resto verrà da sé. Vedrete. «La buona scuola c’è già, in Italia», rassicura il premier alla lavagna. L’istruzione è e dev’essere quella che è sempre stata, quella che abbiamo conosciuto noi; i ragazzi devono imparare ciò che noi abbiamo imparato e secondo gli stessi percorsi. Al massimo, per non sembrare troppo antichi, possiamo spiegarglielo con la «lavagna elettronica».
 


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