La scuola del futuro si fa in classe
Un libro del maestro Giuseppe Caliceti ripercorre i mesi della didattica a distanza, indicando ciò che serve davvero per iniziare il nuovo anno scolastico
Emiliano Sbaraglia
Il 14 settembre, giorno d’inizio del nuovo anno scolastico, tra qualche settimana sarà dietro l’angolo, e le linee guida recentemente rese pubbliche dal ministro dell’Istruzione non sembrano risolvere i numerosi interrogativi che in particolare insegnanti e studenti, oltre le loro famiglie, continuano a porsi: dall’idoneità strutturale di molti edifici all’insufficienza numerica del corpo docente, sino alla confusa alternanza tra didattica in presenza e distanza. Prendendo spunto dal suo ultimo libro La scuola senza andare a scuola (pp.154, € 14), pubblicato quasi in tempo reale per Manni Editori, di questo e altro abbiamo parlato con il maestro e scrittore Giuseppe Caliceti.
Partiamo dal libro?
Sì, un libro che nasce dalla mia esperienza diretta. Insegnando in una prima elementare, a un certo punto mi sono accorto dell’assurdità del tutto quando i bambini hanno posto una domanda semplice e illuminante: ma che scuola è se non andiamo a scuola? E la verità è proprio questa. In questi mesi di emergenza sanitaria non è stata una scuola perché non ci sono stati gli altri, è mancata la relazione sociale, o come dicono i miei allievi, è mancata la ricreazione. Non è stata scuola a distanza, ma un’altra cosa. I bambini mettono in luce questo: la scuola è soprattutto socialità. Le cose si imparano insieme, in gruppo. La scuola per loro è la piazza, il mondo, il mondo vivo. E se ci pensiamo, si tratta dell’unico luogo in una città con una maggioranza di minorenni rispetto agli adulti. Così ho cominciato a prendere appunti, e ne è uscito questo libro.
Quali sono i temi principali?
La tesi di fondo è che la pandemia abbia accelerato un processo di privatizzazione della scuola pubblica, iniziato ormai da oltre due decenni, che ha praticamente attraversato ogni schieramento politico. Da quando si è cominciato a parlare di autonomia con Luigi Berlinguer, si ha come l’impressione che allo Stato la scuola pubblica non interessi più, come se senza dirlo dicesse “fatela voi, pagatela voi famiglie”, buttando così un’esperienza meravigliosa come è stata quella della pedagogia del novecento italiano: Don Milani, Mario Lodi, Loris Malagutti, Bruno Ciari, Gianni Rodari. Uomini, maestri, professori popolari, che hanno dato vita a una pedagogia rivoluzionaria, che io chiamo popolare, fondendosi con l’articolo 34 della Costituzione italiana, sintesi degli ideali ottocenteschi, sviluppati nel tempo.
Si potrebbe obiettare che oggi ci troviamo in un altro secolo, e che la scuola deve obbligatoriamente modernizzarsi, stare al passo con i tempi.
Su questo siamo d’accordo, ma in questi giorni stiamo assistendo non alla modernizzazione ma al disfacimento della scuola. Il discorso sulle nuove tecnologie somiglia molto a uno Stato che prima utilizzava la scuola anche per diffondere il suo messaggio, la sua “propaganda”, se vogliamo chiamarla così. Si pensi alla cittadinanza, all’educazione alla cittadinanza, che in fondo è l’educazione della Repubblica. Ma dal 2000 in poi per inculcare un’ideologia democratica, o l’ideologia opportuna, non si fa più riferimento alla scuola ma alla tv e soprattutto ai social, con i quali spendi meno per condizionare e formare la gente a tuo piacimento, ottenendo di più. Tutti i governi occidentali hanno smesso di investire nella scuola per seguire questo trend. Eppure soltanto pochi anni fa, sino al 2008, eravamo i migliori in Europa, mentre ora, sono dati di queste ore, siamo tra gli ultimi. Le nostre scuole pubbliche, soprattutto la primaria e secondaria di primo grado, non avevano nulla da invidiare alle scuole private inglesi o tedesche dove, ricordiamolo, se non spendi 30-40.000 euro l’anno, senza insegnanti di sostegno, sei costretto a rifugiarti nella scuola pubblica che è una scuola di serie b, mero babysitteraggio, con il forte rischio di non poterti poi iscrivere al college. Vogliamo seguire questo modello?
Una domanda specifica sulla didattica a distanza è inevitabile.
Nel libro rifiuto l’acronimo Dad, e la chiamo didattica dell’emergenza, perché di questo si è trattato. Ma la didattica vera non è né l’una né l’altra, ma sul posto, sul luogo fisico. Sia chiaro, non sono contro la tecnologia, ma si è voluta far passare un’emergenza non come tale, ma nelle prime dichiarazioni del ministro addirittura come una specie di opportunità per le famiglie, e per ammodernare la scuola italiana entrando così nella scuola del futuro. Ma si tratta di una narrazione falsa, sbagliata, e pericolosa, ancor più ora che si sta avvicinando il nuovo anno scolastico.
Si parla di un ibrido, di un’alternanza tra presenza e distanza. Potrebbe essere una soluzione percorribile?
Se inizi a ipotizzare momenti di scuola in presenza e a distanza stai diminuendo il tempo-scuola dei ragazzi, distruggendo un modello scolastico che funziona da 150 anni. Anche i genitori hanno vissuto l’emergenza, e non possono continuare a seguire i propri figli a casa solo per far risparmiare lo Stato e privatizzare la scuola, affidando l’istruzione alle piattaforme Google. Noi sappiamo, come pedagogisti ed educatori, che l’educazione avviene attraverso l’emozione. La tecnologia può essere solo uno dei tanti strumenti, perché i social amplificano la solitudine, annullando l’emozione. Nei giorni più difficili del Covid-19 un bambino mi ha scritto. “Voglio una maestra da abbracciare”, ed è un bambino disabile. Ecco, soprattutto per chi deve affrontare un disagio, in determinate fasi di crescita, la trasmissione delle emozioni rimane insostituibile.-
Cosa accadrà a settembre?
Secondo me ci troviamo di fronte a questa situazione: da una parte lo sconcerto delle famiglie italiane, dall’altra individui più o meno qualificati che alla tv misurano la distanza tra i banchi con il metro. Quando li vedo mi viene da piangere e ridere insieme… Non sono mai stati con 26 bambini in un’aula. Non hanno capito nulla. C’è un grido di allarme lanciato al governo dalla Cgil e dagli altri sindacati, che denuncia la mancanza di 170.000 insegnanti per cercare di iniziare il nuovo anno scolastico nella miglior maniera possibile. Di fronte a questa denuncia a chi dobbiamo dar retta? Al governo, al ministro, o al sindacato? Sono cifre reali, o i sindacati sono impazziti? Ci sarà un concorso? E che tipo di concorso? Nel frattempo i giorni passano, e il 14 settembre si avvicina sempre di più. Io ho 26 allievi, il comitato scientifico ci chiede di sdoppiare la classe. Va bene, me ne tengo 13. Ma gli altri 13 chi li tiene? Che fine fanno? Vorrei che qualcuno si assumesse queste responsabilità per iscritto. E che questo qualcuno pensasse anche alla tutela dei docenti lavoratori.